lunedì 20 ottobre 2014

Russia-Ucraina, l'esile filo di un dialogo possibile




di Cristofaro Sola



Il sipario è calato sull’Asia Europe Meeting. Il vertice, monopolizzato dalla crisi ucraina, non è stato un successo. Al tavolo negoziale si sono fronteggiate almeno quattro posizioni. La prima ha riguardato il presidente dell’Ucraina. Petro Poroshenko puntava a chiudere l’accordo con Mosca per le forniture di gas. Il contenzioso verte sull’ammontare del debito accumulato negli anni dall’Ucraina nei confronti della compagnia petrolifera russa Gazprom. Poroshenko sa di non potere onorare l’intera somma dovuta –5,5 miliardi$- senza l’intervento di capitali freschi provenienti da fonti occidentali. Tuttavia, concludere il negoziato nell’ambito del vertice Asem avrebbe consentito al leader ucraino di terminare la campagna elettorale in corso per il rinnovo anticipato del parlamento nazionale - il Verchovna Rada- con maggiori chances di successo. Poroshenko ha offerto il consolidamento della legge sull’autonomia speciale, concessa attualmente in via temporanea, alle regioni separatiste del Donbass. Inoltre avrebbe confermato l’adesione al  processo di pace delineato nei nove punti del “memorandum di Minsk”.
L’Ucraina non potrebbe reggere oltre il peso finanziario di una guerra civile prolungata, anche se a bassa intensità. Un recente studio del Ce.S.I. rileva che finora l’OAT, cioè l’Operazione Anti Terrorismo condotta dalle forze armate ucraine contro i separatisti delle regioni del Donbass, sia costata 8 miliardi di dollari, con una previsione di raddoppio dei costi nei prossimi mesi. Non solo. La crisi ha determinato un crollo delle esportazioni verso la Russia stimato in 2,5miliardi $, parzialmente compensati dalla crescita dell’1,2% delle esportazioni verso la Ue. Il dato è molto negativo se si considera che, per Kiev, la Russia resta il primo mercato d’esportazione. In caso di rottura delle relazioni commerciali le perdite per il sistema produttivo ucraino sono stimate, su base di calcolo decennale, in 200 miliardi di dollari. L’Ucraina ha un debito di breve-medio periodo di 30miliardi $, coperto solo in parte dalle riserve valutarie. Ne consegue che il rischio di default per il paese sia molto elevato. E non è detto che la Ue, alle prese con i problemi dei suoi Stati membri, possa decidere di pompare risorse illimitate nel pozzo ucraino. Poroshenko deve fare i conti con la realtà. La produzione industriale del suo paese è calata del 12%, il rapporto deficit/PIL potrebbe arrivare nel 2014 al record negativo del 6,4%. Poroshenko proviene dalla classe degli oligarchi e li rappresenta. Questi ultimi non hanno troppa voglia di bruciare i ponti con il tradizionale partner russo. D’altro canto, le due economie continuano a essere complementari. Poroshenko ha ragione di temere che il prolungarsi della crisi possa ridare fiato agli spiriti ultranazionalisti. Gli estremisti sono pronti a soffiare sul fuoco dell’immiserimento complessivo della popolazione per spingere il paese verso la deriva violenta del nazionalismo anti-russo e, insieme, anti-occidentale. Per Poroshenko la partita sul gas resta il punto di snodo dell’intero negoziato. Comunque, sarebbe stato già soddisfacente tornare in patria e rassicurare i propri concittadini che non resteranno al freddo nei prossimi mesi.
I toni encomiastici sulle conclusioni del vertice non sono stati per nulla condivisi dalla cancelliera Merkel. La sua Germania continua a coltivare ambizioni diverse e non tutte condivise all’interno della Ue. Angela Merkel punta al doppio obiettivo. Da un lato integrare nella sfera d’influenza europea l’Ucraina per sfruttarne a costi convenienti le risorse minerarie delle regioni orientali e quelle idrocarburiche che giacciono nelle profondità del Mar d’Azov; dall’altro, ottenere il ridimensionamento politico-strategico del competitor russo. La credibilità di questa posizione è stata dimidiata dall’uso strumentale che è stato fatto del diritto del popolo ucraino all’integrità territoriale. La Germania, affiancata dai paesi russofobi dell’Europa di Nord-Est e con il sostegno di Londra e di Washington, sta usando argomentazioni nobili per coprire una guerra di interessi non sempre commendevoli. Forse la signora Merkel sperava di ottenere  maggiori risultati dalla strategia d’isolamento tentata ai danni della leadership moscovita. Le sue dichiarazioni e il suo volto scuro, nei giorni di Milano, raccontano il contrario.
Agli osservatori non è sfuggita invece una certa baldanza nei toni del presidente Vladimir Putin, protagonista del vertice Asem. Il leader russo è giunto in Italia con l’idea di consolidare lo status quo. Putin avrebbe voluto una presa d’atto della comunità internazionale sulla modifica degli assetti territoriali dell’Ucraina seguiti alla perdita della penisola di Crimea. Per questo obiettivo sarebbe stato pronto a dare il via libera a una soluzione del contenzioso finanziario molto vantaggiosa per Kiev. In alternativa, la delegazione russa avrebbe alzato il tiro proprio sulla questione del pagamento del debito. Com’è puntualmente accaduto. E’ di tutta evidenza che il capo del Cremlino abbia calcato la mano nel richiedere all’Occidente europeo che si facesse carico di onorare i pagamenti in luogo del debitore ucraino. Una mossa tattica per spingere i sostenitori europei di Kiev ad accettare la realtà. Mosca sarebbe ben lieta di abbonare buona parte dei debiti a Kiev in cambio di una legittimazione internazionale dell’annessione della Crimea alla Federazione russa. La minaccia, neanche troppo velata, di creare problemi sulle forniture a tutto l’ovest europeo con l’approssimarsi dell’inverno, avrebbe dovuto servire da strumento di pressione sugli altri player del negoziato per indurli ad allentare il regime delle sanzioni in atto che sta provocando fughe di capitali e d’investitori dal mercato russo. Così non è stato. In prospettiva, se Mosca non dovesse ricevere risposte convincenti dal fronte occidentale potrebbe deviare verso un congelamento del conflitto nelle regioni del Donbass sul modello di scenario già sperimentato in Transinistria, in Abkazia e in Ossezia del Sud.
La quarta aspirazione che ha preso posto al tavolo di Milano è stata rappresentata dall’Italia a nome di quei paesi del sud e del sud-est dell’Europa che la crisi ucraina la stanno subendo senza averne alcun beneficio. Probabilmente la delegazione italiana è stata quella che maggiormente si è spesa per un esito positivo del vertice. Matteo Renzi sentiva la pressione dei nostri produttori che hanno ricevuto danni significativi dall’escalation della guerra delle sanzioni. Per comprendere le dimensioni del problema basti ricordare che il volume dell’interscambio commerciale con la Russia ha traguardato, nel 2013, la quota di 39miliardi di euro. Se il vento non dovesse cambiare, l’export italiano subirà, nel biennio 2014-15, una contrazione di circa 2,4milardi di euro, al netto dei numeri negativi sui flussi turistici dalla Russia verso l’Italia e sugli investimenti di capitali russi nella nostra economia. E’ una prospettiva che il sistema produttivo italiano non può consentirsi in un momento di perdurante stagnazione interna. Vi è poi la partita delle forniture idrocarburiche. Il prodotto russo copre in complessivo il 45% del fabbisogno domestico. Per il momento il progetto d’implementazione del “corridoio sud” nel quadro della diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con la guerra civile libica alle porte, è poco più di un’utopia. Quindi, insistere con la politica del muro-contro-muro potrebbe, alla lunga, rivelarsi esiziale. Il conflitto intra-ucraino potrebbe causare una preoccupante frattura all’interno dell’Unione europea. Non sarebbe da escludere che l’atteggiamento da tenere verso la Russia divenga la causa d’innesco per la deflagrazione delle contraddizioni stratificatesi in seno alla comunità.
A Milano c’è stata una speranza di de-escalation che è andata delusa, ma non è morta. Il canale di dialogo, comunque, resta aperto. 

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