di Cristofaro Sola
Il sipario è calato sull’Asia
Europe Meeting. Il vertice, monopolizzato dalla crisi ucraina, non è stato un
successo. Al tavolo negoziale si sono fronteggiate almeno quattro posizioni. La
prima ha riguardato il presidente dell’Ucraina. Petro Poroshenko puntava a
chiudere l’accordo con Mosca per le forniture di gas. Il contenzioso verte
sull’ammontare del debito accumulato negli anni dall’Ucraina nei confronti della
compagnia petrolifera russa Gazprom. Poroshenko sa di non potere onorare l’intera
somma dovuta –5,5 miliardi$- senza l’intervento di capitali freschi provenienti
da fonti occidentali. Tuttavia, concludere il negoziato nell’ambito del vertice
Asem avrebbe consentito al leader ucraino di terminare la campagna elettorale
in corso per il rinnovo anticipato del parlamento nazionale - il Verchovna
Rada- con maggiori chances di successo. Poroshenko ha offerto il
consolidamento della legge sull’autonomia speciale, concessa attualmente in via
temporanea, alle regioni separatiste del Donbass. Inoltre avrebbe confermato
l’adesione al processo di pace delineato
nei nove punti del “memorandum di Minsk”.
L’Ucraina non potrebbe reggere
oltre il peso finanziario di una guerra civile prolungata, anche se a bassa intensità.
Un recente studio del Ce.S.I. rileva che finora l’OAT, cioè l’Operazione Anti Terrorismo
condotta dalle forze armate ucraine contro i separatisti delle regioni del
Donbass, sia costata 8 miliardi di dollari, con una previsione di raddoppio dei
costi nei prossimi mesi. Non solo. La crisi ha determinato un crollo delle
esportazioni verso la Russia stimato in 2,5miliardi $, parzialmente compensati
dalla crescita dell’1,2% delle esportazioni verso la Ue. Il dato è molto
negativo se si considera che, per Kiev, la Russia resta il primo mercato
d’esportazione. In caso di rottura delle relazioni commerciali le perdite per
il sistema produttivo ucraino sono stimate, su base di calcolo decennale, in
200 miliardi di dollari. L’Ucraina ha un debito di breve-medio periodo di
30miliardi $, coperto solo in parte dalle riserve valutarie. Ne consegue che il
rischio di default per il paese sia molto elevato. E non è detto che la Ue,
alle prese con i problemi dei suoi Stati membri, possa decidere di pompare
risorse illimitate nel pozzo ucraino. Poroshenko deve fare i conti con la
realtà. La produzione industriale del suo paese è calata del 12%, il rapporto
deficit/PIL potrebbe arrivare nel 2014 al record negativo del 6,4%. Poroshenko
proviene dalla classe degli oligarchi e li rappresenta. Questi ultimi non hanno
troppa voglia di bruciare i ponti con il tradizionale partner russo. D’altro
canto, le due economie continuano a essere complementari. Poroshenko ha ragione
di temere che il prolungarsi della crisi possa ridare fiato agli spiriti
ultranazionalisti. Gli estremisti sono pronti a soffiare sul fuoco
dell’immiserimento complessivo della popolazione per spingere il paese verso la
deriva violenta del nazionalismo anti-russo e, insieme, anti-occidentale. Per
Poroshenko la partita sul gas resta il punto di snodo dell’intero negoziato.
Comunque, sarebbe stato già soddisfacente tornare in patria e rassicurare i
propri concittadini che non resteranno al freddo nei prossimi mesi.
I toni encomiastici sulle
conclusioni del vertice non sono stati per nulla condivisi dalla cancelliera Merkel.
La sua Germania continua a coltivare ambizioni diverse e non tutte condivise
all’interno della Ue. Angela Merkel punta al doppio obiettivo. Da un lato
integrare nella sfera d’influenza europea l’Ucraina per sfruttarne a costi
convenienti le risorse minerarie delle regioni orientali e quelle
idrocarburiche che giacciono nelle profondità del Mar d’Azov; dall’altro, ottenere
il ridimensionamento politico-strategico del competitor russo. La credibilità
di questa posizione è stata dimidiata dall’uso strumentale che è stato fatto del
diritto del popolo ucraino all’integrità territoriale. La Germania, affiancata
dai paesi russofobi dell’Europa di Nord-Est e con il sostegno di Londra e di
Washington, sta usando argomentazioni nobili per coprire una guerra di
interessi non sempre commendevoli. Forse la signora Merkel sperava di
ottenere maggiori risultati dalla
strategia d’isolamento tentata ai danni della leadership moscovita. Le sue
dichiarazioni e il suo volto scuro, nei giorni di Milano, raccontano il
contrario.
Agli osservatori non è sfuggita
invece una certa baldanza nei toni del presidente Vladimir Putin, protagonista
del vertice Asem. Il leader russo è giunto in Italia con l’idea di consolidare
lo status quo. Putin avrebbe voluto una presa d’atto della comunità
internazionale sulla modifica degli assetti territoriali dell’Ucraina seguiti alla
perdita della penisola di Crimea. Per questo obiettivo sarebbe stato pronto a
dare il via libera a una soluzione del contenzioso finanziario molto vantaggiosa
per Kiev. In alternativa, la delegazione russa avrebbe alzato il tiro proprio sulla
questione del pagamento del debito. Com’è puntualmente accaduto. E’ di tutta
evidenza che il capo del Cremlino abbia calcato la mano nel richiedere
all’Occidente europeo che si facesse carico di onorare i pagamenti in luogo del
debitore ucraino. Una mossa tattica per spingere i sostenitori europei di Kiev
ad accettare la realtà. Mosca sarebbe ben lieta di abbonare buona parte dei
debiti a Kiev in cambio di una legittimazione internazionale dell’annessione
della Crimea alla Federazione russa. La minaccia, neanche troppo velata, di
creare problemi sulle forniture a tutto l’ovest europeo con l’approssimarsi
dell’inverno, avrebbe dovuto servire da strumento di pressione sugli altri
player del negoziato per indurli ad allentare il regime delle sanzioni in atto
che sta provocando fughe di capitali e d’investitori dal mercato russo. Così
non è stato. In prospettiva, se Mosca non dovesse ricevere risposte convincenti
dal fronte occidentale potrebbe deviare verso un congelamento del conflitto nelle
regioni del Donbass sul modello di scenario già sperimentato in Transinistria,
in Abkazia e in Ossezia del Sud.
La quarta aspirazione che ha
preso posto al tavolo di Milano è stata rappresentata dall’Italia a nome di quei
paesi del sud e del sud-est dell’Europa che la crisi ucraina la stanno subendo
senza averne alcun beneficio. Probabilmente la delegazione italiana è stata quella
che maggiormente si è spesa per un esito positivo del vertice. Matteo Renzi
sentiva la pressione dei nostri produttori che hanno ricevuto danni
significativi dall’escalation della guerra delle sanzioni. Per comprendere le
dimensioni del problema basti ricordare che il volume dell’interscambio
commerciale con la Russia ha traguardato, nel 2013, la quota di 39miliardi di
euro. Se il vento non dovesse cambiare, l’export italiano subirà, nel biennio
2014-15, una contrazione di circa 2,4milardi di euro, al netto dei numeri
negativi sui flussi turistici dalla Russia verso l’Italia e sugli investimenti
di capitali russi nella nostra economia. E’ una prospettiva che il sistema
produttivo italiano non può consentirsi in un momento di perdurante stagnazione
interna. Vi è poi la partita delle forniture idrocarburiche. Il prodotto russo
copre in complessivo il 45% del fabbisogno domestico. Per il momento il
progetto d’implementazione del “corridoio sud” nel quadro della
diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con la guerra civile libica
alle porte, è poco più di un’utopia. Quindi, insistere con la politica del muro-contro-muro
potrebbe, alla lunga, rivelarsi esiziale. Il conflitto intra-ucraino potrebbe
causare una preoccupante frattura all’interno dell’Unione europea. Non sarebbe
da escludere che l’atteggiamento da tenere verso la Russia divenga la causa d’innesco
per la deflagrazione delle contraddizioni stratificatesi in seno alla comunità.
A Milano c’è stata una speranza
di de-escalation che è andata delusa, ma non è morta. Il canale di dialogo,
comunque, resta aperto.
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