giovedì 23 ottobre 2014

Terrorismo in Canada, la "guerra senza limiti" dei nemici della democrazia



di Liberadestra


Abbiamo dunque  scoperto che anche nel  lontano e tranquillo Canada opera una "fabbrica di estremisti". L'attacco al Parlamento da parte di un canadese convertito all'islam  è un evento che lascia sgomenti e che produce insicurezza al di là del, pur gravissimo,  fatto in sé. Forse emergerà o forse no che l'attentatore era collegato a una centrale terroristica. Ma anche l'ipotesi del gesto isolato non è meno inquietante di quella dell'attacco pianificato sulla base di una atroce strategia del terrore. I "cani sciolti" del Jihad sono un fenomeno diffuso da tempo e sono perfettamente in linea con il carattere nichilista del nuovo radicalismo terrorista. Non è d'altronde azzardato immaginare che l'orrore mediatico diffuso dai video dell'Isis abbia svegliato l'istinto criminale dell'estremista di Ottawa.
Anche i "cani sciolti" del terrore sono parte del nuovo tipo di guerra globale che si è mostrata al mondo l'11 settembre del 2001. E' la guerra senza obiettivi strategici definiti se non quello di adulterare abitudini e sistemi di vita, di produrre insicurezza cronica, di suscitare reazioni incontrollate. E' una sorta di "psico-guerra" nella quale gli obiettivi possono essere ovunque. Possono essere un Parlamento, un'ambasciata, come anche una metropolitana oppure una pacifica manifestazione popolare, come accaduto nell'attentato, lo scorso anno, alla maratona di Boston.
Siamo entrati nell'epoca delle "guerra senza limiti", come dal titolo del celebre trattato di polemologia di Qiao Liang e Wang Xiangsui. "La guerra senza limiti - ha scritto Fabio Mini nel saggio La guerra spiegata a... - si pone l'obiettivo di demolire la forza intellettuale di un avversario spingendolo oltre i limiti morali e mentali, costringendolo a compromettersi innanzi tutto sul piano etico". Le provocazioni contro Roma e contro l'Occidente dell'Isis non sono ad esempio "propaganda", ma parte integrante della "guerra".
E' un nemico nuovo e insidioso. "Le democrazie occidentali - paventa Massimo Gaggi sul Corriere della Sera - possono trovarsi davanti a un bivio: accettare un alto livello di vulnerabilità o agire come regimi polizieschi contro estremisti giudicati pericolosi pur senza reati". Se si arrivasse a un punto simile, l'Occidente democratico e liberale subirebbe una grave sconfitta. La nostra società non deve finire tra Scilla e Cariddi. La sicurezza deve rimanere parte integrante della democrazia, deve continuare a marciare con il suo stesso passo. Anche il  miglioramento della qualità della vita sociale può diventare una risorsa strategica contro il terrore. E fa riflettere il fatto che l'attentatore di Ottawa aveva precedenti per  droga.

martedì 21 ottobre 2014

Immigrazione e cittadinanza, Renzi “copia” Fini




di Liberadestra




Cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia dopo un primo ciclo di studi: un “fatto di civiltà”, afferma Matteo Renzi in queste ore dalle prime pagine dei quotidiani. La proposta, presentata come prodotto dell’ala renziana del Pd (“ne discutevamo da tempo”, afferma orgogliosamente Orfini) in realtà ha ben poco di originale.  Autore della proposta concreta del passaggio dallo ius sanguinis (cittadinanza del bambino è quella dei genitori, indipendentemente da dove nasce) allo ius soli (cittadinanza del bambino è quella del paese dove nasce) seppur “temperato” dal possesso di alcuni requisiti come aver completato un ciclo di studi, è stato Gianfranco Fini nel 2009. Una proposta presentata e discussa pubblicamente in più sedi, a partire dai lavori condotti dall'allora Fondazione Farefuturo presieduta da Fini con la Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. Una posizione d’avanguardia per l’universo culturale del centro destra di allora, che gridò pubblicamente allo scandalo, accusando Fini di essere diventato di sinistra. Gli stessi che oggi da un lato tacciono (forse perché al governo?) e dall’altro manifestano insieme alla Lega di Salvini al grido “Via gli immigrati dall’Italia”.  Apprendere che “solo” dopo cinque anni, il Governo  recupera idee e proposte politiche altrui, fa ben sperare per il cammino di crescita di un paese. E il fatto che ci  sia la convergenza di opposti schieramenti  proprio su un tema come questo, un paese serio deve considerarlo un segno di maturità e non un “inciucio”.

Però, caro Renzi, la prossima volta, almeno cita la fonte. 

Un pallido centrodestra asseconda Renzi pigliatutto



di Aldo Di Lello 


Uno strano attacco di accidia, una incomprensibile rassegnazione sembrano in questo momento attraversare il campo del centrodestra (o di quel che ne rimane). Dall'Ncd  alla Lega e a FdI, passando ovviamente per Forza Italia, non giungono segnali di riscossa. Inerti, confusi, minimalisti, tutti assistono senza colpo ferire al tentativo renziano di trasformare il Pd nel partito pigliatutto della politica italiana. L'idea del premier-segretario è quello di un partito a vocazione "maggioritaria", capace cioè di raccogliere consensi trasversali, sia in senso politico sia in senso sociale. "Il Pd - ha spiegato Renzi nel corso dell'ultima Direzione -  deve essere un partito che si allarga. Reichlin lo ha chiamato il partito della nazione. Deve contenere realtà diverse". Più che un "partito della nazione" (il quale dovrebbe partire da un grande progetto per l'Italia), quello di Renzi appare in verità un partito idrovora, sostenuto dall'affabulazione del leader e dal senso di emergenza diffuso nella nostra società.
Si può certo osservare che, quello renziano, potrebbe rivelarsi un sogno velleitario. E ciò per le contraddizioni che reca al suo interno, non ultima la corrente di dissenso che monta a sinistra, nel partito e tra la tradizionale base sociale del Pd. Il partito renziano potrebbe insomma fare la fine del rospo delle fiabe, che si gonfia a dismisura, per  poi esplodere, alla prima difficoltà.Ma non è questo il punto. Il punto è che il progetto renziano è oggi favorito dall'atteggiamento rinunciatario del centrodestra. Non risultano ad esempio  pervenute, al di là della scontata polemica  su questo o quel punto, proposte alternative e di ampio respiro alla legge di stabilità varata dal governo. E dire che gli argomenti  non mancherebbero, a partire dagli effetti potenzialmente nefasti del  (perverso) combinato disposto tra l'anticipo del Tfr in busta paga e la stangata fiscale sui fondi pensione. Al solo scopo di fare cassa e di appesantire (comunque leggermente e comunque con i soldi dei lavoratori) gli stipendi, il governo non esita a danneggiare le pensioni integrative, che rappresentano la speranza previdenziale per le giovani generazioni. E ciò dà la misura della scarsa visione strategica, della povera idea dell'Italia e del suo futuro, che il renzismo trionfante sta oggi dimostrando. Un centrodestra con cultura di governo annuncerebbe una grande battaglia su questo punto. Ma dove la pulsione alla resa da parte del cdx (in particolare di Forza Italia) diventa palese è nella vicenda della legge elettorale. Renzi intende passare dall'Italicum a un provvedimento fatto su misura per il suo Pd a "vocazione maggioritaria".  Il premio di maggioranza verrebbe infatti attribuito, non più alla coalizione bensì alla lista. Ebbene, se l'Ncd ha già dato il suo ok con Alfano, neanche FI sembra contraria. I capigruppo, Brunetta e Romani, hanno posto solo una questione di "metodo" , mentre dall'entourage di Berlusconi filtra una sostanziale approvazione. E' proprio vero, come dicevano gli antichi, che gli dèi accecano quelli che vogliono perdere. Perché consegnare in questo momento tale legge a Renzi , equivale a consegnargli di fatto, e chissà per quanto tempo ancora, le chiavi del Paese.E neanche la fragorosa "opposizione" della Lega  (partito che tutti i sondaggi designano in crescita) può impensierire Renzi. Anzi. Proprio la recente manifestazione anti-immigrati di Milano dimostra che l'obiettivo del Carroccio è quello della protesta sterile, che non si trasformerà mai in cultura di governo. Xenofobia e anti-Europa sono oggi il mix perfetto per rimanere in eterno all'opposizione. Così, per la gioia del leader Pd, assisteremo - come già peraltro stiamo assistendo - all'"epica" sfida tra Salvini e Grillo per conquistare il cuore dell'Italia più impaurita e rancorosa.Se non cambia qualcosa, se il centrodestra nel suo insieme (e la destra in particolare) non ritrovano il gusto di tornare a essere trainanti per l'Italia politica, la voglia di riconquistare i ceti perduti e gli elettori delusi, il desiderio di essere credibile forza di governo, se non accade tutto questo, il renzismo colorerà a lungo il nostro futuro. Chi non si rassegna a una simile prospettiva deve  dirlo oggi con chiarezza. E a voce alta. 

Ebola e il contagio della paura universale




di Elisa Mauro 



Anno 2014. Finisce una guerra, ne inizia un’altra. Le zanzare non smettono di pungere. Come cinquant’anni fa, anzi – se possibile – è ancora peggio. Anno 2014. Persa la battaglia contro la fame di lavoro e di società civile, si comincia a intravedere un altro campo di battaglia che appare ampio, lungo, oltre che impervio. Non ne sentivamo il bisogno. Onestamente. Anno 2014. E come l’anno precedente l’Occidente trema. Per qualcosa che si conosceva anche cinquanta anni fa, ma che non destava così prepotente l’attenzione/disattenzione dei potenti e, quindi, la nostra. Mentre ancora Sars e Aviaria vivono latenti da qualche parte del pianeta, l’odore di un’altra terribile minaccia comincia a bruciare nelle nari. Questa provoca febbre alta, forti dolori addominali e muscolari, spossatezza e letali emorragie. Provoca la contaminazione incessante, il passaparola virale, il contagio della paura mondiale. La sua infezione è velocissima e la sua virulenza troppo alta per essere sottovalutata. È Ebola, il virus che dall’inizio di questo faticoso 2014 sta facendo tremare l’Africa occidentale, e piano piano l’Occidente e il suo notorio savoir-fair. Niente di personale, fa sapere il virus. Ebola aveva solo voglia di far concentrare l’attenzione dei potenti su qualcosa di nuovo, di diverso. Non che in Africa non si muoia sempre per qualcosa, vedi Aids e altre malattie infettive: questo lo sapevamo tutti e sapevamo anche che per difendere la popolazione pochi passi avanti sono stati fatti. Ma “L’ebola – fa sapere Josè Manuel Barroso dal vertice Asem a Milano - può diventare una catastrofe umanitaria”. Non un problema circoscritto all’origine, dunque, ma una sorta di ferrovecchio che, senza farsi vedere, in una notte, in una manciata di ore, ha legato mani e piedi agli altri continenti, escluso quello nero, che non è nuovo a queste terribili prigionie. I governi centrali e locali stanno sottovalutando il problema. No, altri dicono che in realtà lo stanno sopravvalutando. Fatto sta che da qualsiasi punto di vista si osservi, questa nuova ondata di paura o di veleni fa sudare l’Occidente fino a rendergli le forze inesistenti, neanche godesse normalmente di ottima salute. E quindi Barack Obama dall’America ci tiene a costituire al più presto un tavolo programmatico di supermentati che vengano messi nella condizione di risolvere quanto prima questo increscioso ostacolo o, al più, anzi al meno, ridurre le conseguenze fin qui già maturate dal contagio. E mentre l’Oms dichiara il Senegal ufficialmente guarito dal rischio del contagio nazionale, insieme alla Nigeria, che a breve terminerà il periodo di osservazione del virus su ulteriori casi, resta da tener presente che il vaccino per Ebola non sarà pronto per un suo utilizzo su vasta scala. Già. Una cosa voluta, sperata o improvvisata? In qualsiasi modo vogliamo far tacere o far parlare il nostro diavoletto cospiratore, è l’anno 2014 e anche oggi continuiamo a temere il rischio di un contagio universale.


lunedì 20 ottobre 2014

Assemblea regionale Liberadestra





 Comunicato stampa e invito




Come annunciato in occasione dell’Assemblea nazionale svoltasi al palazzo dei Congressi di Roma lo scorso 28 giugno, il Presidente Gianfranco Fini si appresta ad intraprendere un “giro d’Italia” partecipando alle assemblee di Liberadestra autoconvocatesi nelle varie Regioni. Il primo appuntamento di questo “tour” tra le realtà locali è previsto a Bari, sabato 25 p.v. alle ore 10 presso il Multicinema Galleria. Saranno presenti numerosi esponenti della Destra pugliese.



Per info e accrediti:

Dott. Francesco Capozza
Portavoce presidente Gianfranco Fini
Cell. 3397991754



Russia-Ucraina, l'esile filo di un dialogo possibile




di Cristofaro Sola



Il sipario è calato sull’Asia Europe Meeting. Il vertice, monopolizzato dalla crisi ucraina, non è stato un successo. Al tavolo negoziale si sono fronteggiate almeno quattro posizioni. La prima ha riguardato il presidente dell’Ucraina. Petro Poroshenko puntava a chiudere l’accordo con Mosca per le forniture di gas. Il contenzioso verte sull’ammontare del debito accumulato negli anni dall’Ucraina nei confronti della compagnia petrolifera russa Gazprom. Poroshenko sa di non potere onorare l’intera somma dovuta –5,5 miliardi$- senza l’intervento di capitali freschi provenienti da fonti occidentali. Tuttavia, concludere il negoziato nell’ambito del vertice Asem avrebbe consentito al leader ucraino di terminare la campagna elettorale in corso per il rinnovo anticipato del parlamento nazionale - il Verchovna Rada- con maggiori chances di successo. Poroshenko ha offerto il consolidamento della legge sull’autonomia speciale, concessa attualmente in via temporanea, alle regioni separatiste del Donbass. Inoltre avrebbe confermato l’adesione al  processo di pace delineato nei nove punti del “memorandum di Minsk”.
L’Ucraina non potrebbe reggere oltre il peso finanziario di una guerra civile prolungata, anche se a bassa intensità. Un recente studio del Ce.S.I. rileva che finora l’OAT, cioè l’Operazione Anti Terrorismo condotta dalle forze armate ucraine contro i separatisti delle regioni del Donbass, sia costata 8 miliardi di dollari, con una previsione di raddoppio dei costi nei prossimi mesi. Non solo. La crisi ha determinato un crollo delle esportazioni verso la Russia stimato in 2,5miliardi $, parzialmente compensati dalla crescita dell’1,2% delle esportazioni verso la Ue. Il dato è molto negativo se si considera che, per Kiev, la Russia resta il primo mercato d’esportazione. In caso di rottura delle relazioni commerciali le perdite per il sistema produttivo ucraino sono stimate, su base di calcolo decennale, in 200 miliardi di dollari. L’Ucraina ha un debito di breve-medio periodo di 30miliardi $, coperto solo in parte dalle riserve valutarie. Ne consegue che il rischio di default per il paese sia molto elevato. E non è detto che la Ue, alle prese con i problemi dei suoi Stati membri, possa decidere di pompare risorse illimitate nel pozzo ucraino. Poroshenko deve fare i conti con la realtà. La produzione industriale del suo paese è calata del 12%, il rapporto deficit/PIL potrebbe arrivare nel 2014 al record negativo del 6,4%. Poroshenko proviene dalla classe degli oligarchi e li rappresenta. Questi ultimi non hanno troppa voglia di bruciare i ponti con il tradizionale partner russo. D’altro canto, le due economie continuano a essere complementari. Poroshenko ha ragione di temere che il prolungarsi della crisi possa ridare fiato agli spiriti ultranazionalisti. Gli estremisti sono pronti a soffiare sul fuoco dell’immiserimento complessivo della popolazione per spingere il paese verso la deriva violenta del nazionalismo anti-russo e, insieme, anti-occidentale. Per Poroshenko la partita sul gas resta il punto di snodo dell’intero negoziato. Comunque, sarebbe stato già soddisfacente tornare in patria e rassicurare i propri concittadini che non resteranno al freddo nei prossimi mesi.
I toni encomiastici sulle conclusioni del vertice non sono stati per nulla condivisi dalla cancelliera Merkel. La sua Germania continua a coltivare ambizioni diverse e non tutte condivise all’interno della Ue. Angela Merkel punta al doppio obiettivo. Da un lato integrare nella sfera d’influenza europea l’Ucraina per sfruttarne a costi convenienti le risorse minerarie delle regioni orientali e quelle idrocarburiche che giacciono nelle profondità del Mar d’Azov; dall’altro, ottenere il ridimensionamento politico-strategico del competitor russo. La credibilità di questa posizione è stata dimidiata dall’uso strumentale che è stato fatto del diritto del popolo ucraino all’integrità territoriale. La Germania, affiancata dai paesi russofobi dell’Europa di Nord-Est e con il sostegno di Londra e di Washington, sta usando argomentazioni nobili per coprire una guerra di interessi non sempre commendevoli. Forse la signora Merkel sperava di ottenere  maggiori risultati dalla strategia d’isolamento tentata ai danni della leadership moscovita. Le sue dichiarazioni e il suo volto scuro, nei giorni di Milano, raccontano il contrario.
Agli osservatori non è sfuggita invece una certa baldanza nei toni del presidente Vladimir Putin, protagonista del vertice Asem. Il leader russo è giunto in Italia con l’idea di consolidare lo status quo. Putin avrebbe voluto una presa d’atto della comunità internazionale sulla modifica degli assetti territoriali dell’Ucraina seguiti alla perdita della penisola di Crimea. Per questo obiettivo sarebbe stato pronto a dare il via libera a una soluzione del contenzioso finanziario molto vantaggiosa per Kiev. In alternativa, la delegazione russa avrebbe alzato il tiro proprio sulla questione del pagamento del debito. Com’è puntualmente accaduto. E’ di tutta evidenza che il capo del Cremlino abbia calcato la mano nel richiedere all’Occidente europeo che si facesse carico di onorare i pagamenti in luogo del debitore ucraino. Una mossa tattica per spingere i sostenitori europei di Kiev ad accettare la realtà. Mosca sarebbe ben lieta di abbonare buona parte dei debiti a Kiev in cambio di una legittimazione internazionale dell’annessione della Crimea alla Federazione russa. La minaccia, neanche troppo velata, di creare problemi sulle forniture a tutto l’ovest europeo con l’approssimarsi dell’inverno, avrebbe dovuto servire da strumento di pressione sugli altri player del negoziato per indurli ad allentare il regime delle sanzioni in atto che sta provocando fughe di capitali e d’investitori dal mercato russo. Così non è stato. In prospettiva, se Mosca non dovesse ricevere risposte convincenti dal fronte occidentale potrebbe deviare verso un congelamento del conflitto nelle regioni del Donbass sul modello di scenario già sperimentato in Transinistria, in Abkazia e in Ossezia del Sud.
La quarta aspirazione che ha preso posto al tavolo di Milano è stata rappresentata dall’Italia a nome di quei paesi del sud e del sud-est dell’Europa che la crisi ucraina la stanno subendo senza averne alcun beneficio. Probabilmente la delegazione italiana è stata quella che maggiormente si è spesa per un esito positivo del vertice. Matteo Renzi sentiva la pressione dei nostri produttori che hanno ricevuto danni significativi dall’escalation della guerra delle sanzioni. Per comprendere le dimensioni del problema basti ricordare che il volume dell’interscambio commerciale con la Russia ha traguardato, nel 2013, la quota di 39miliardi di euro. Se il vento non dovesse cambiare, l’export italiano subirà, nel biennio 2014-15, una contrazione di circa 2,4milardi di euro, al netto dei numeri negativi sui flussi turistici dalla Russia verso l’Italia e sugli investimenti di capitali russi nella nostra economia. E’ una prospettiva che il sistema produttivo italiano non può consentirsi in un momento di perdurante stagnazione interna. Vi è poi la partita delle forniture idrocarburiche. Il prodotto russo copre in complessivo il 45% del fabbisogno domestico. Per il momento il progetto d’implementazione del “corridoio sud” nel quadro della diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con la guerra civile libica alle porte, è poco più di un’utopia. Quindi, insistere con la politica del muro-contro-muro potrebbe, alla lunga, rivelarsi esiziale. Il conflitto intra-ucraino potrebbe causare una preoccupante frattura all’interno dell’Unione europea. Non sarebbe da escludere che l’atteggiamento da tenere verso la Russia divenga la causa d’innesco per la deflagrazione delle contraddizioni stratificatesi in seno alla comunità.
A Milano c’è stata una speranza di de-escalation che è andata delusa, ma non è morta. Il canale di dialogo, comunque, resta aperto. 

Ma Renzi non ha la visione della Nuova Repubblica





di Angelo Romano


Se a Matteo Renzi riuscirà di rottamare anche il Pd  - come sembra stia facendo - allora si sarà guadagnato un posto nella storia e la gratitudine imperitura di molti italiani.
Per uscire dall'agonia della cosiddetta Seconda Repubblica  occorre demolire i centri di resistenza al cambiamento che vi si oppongono. Tra questi, alcune forze politiche - come il PD - che hanno conservato una concezione egemonica, una supposta diversità morale ed un doppiopesismo, ereditati dal vecchio PCI, che mirano alla tutela di uno status quo che, nelle sue pieghe incancrenite, offre ampi spazi di manovra e grandi opportunità in termini di gestione del potere e di "manutenzione" del consenso.
In questo senso le capacità "rottamatorie" di Renzi possono essere utili all'Italia. Altro il discorso sulle capacità di costruire razionalmente e strategicamente le condizioni per l'avvento della Terza Repubblica. Capacità che, probabilmente, Renzi non ha, se si guarda al pasticcio della riforma del Senato, alla finta abolizione delle Province, all'orribile progetto di legge elettorale, al flop degli 80 euro sul rilancio dei consumi, all'inutile impuntatura sulla Mogherini alla guida di una inesistente politica estera europea, allo scialbo semestre di presidenza europea, alle immutate prospettive di decrescita economica e civile, all'assenza di una "visione" per l'Italia e per l'Europa.
I costruttori della Terza Repubblica, probabilmente, saranno altri da Renzi, il demolitore. Ciò perché,  il ritorno della politica, che finalmente e meritoriamente è riuscito ad incarnare pienamente, dai tempi di Tangentopoli, costituisce, paradossalmente il suo limite che non gli consentirà di metter mano alla revisione profonda della nostra Costituzione. E senza la riscrittura della Carta non potrà esserci nessuna  radicale riforma e nessuna Terza Repubblica all'orizzonte.
La politica agisce entro i margini fissati dalla Carta, figlia a sua volta di un atto politico fondante, ma la sua supponenza, spesso, non le fa intravedere tali limiti e l'impossibilità di operare concretamente i cambiamenti radicali di cui ci sarebbe disperato bisogno. Quanto è davvero efficacemente riformabile la giustizia, ad esempio, con le regole date?
Regole, si ricordi, scritte alla fine di un conflitto mondiale, dopo un'esperienza totalitaria, col condizionamento forte della volontà dei vincitori ed in un'epoca in cui il mondo si andava assettando per blocchi contrapposti e sull'equilibrio del terrore e neanche si intravedevano le rivoluzioni industriali e tecnologiche che ci sono state nei decenni successivi alla sua formulazione.
La riscrittura della Costituzione sarebbe un atto necessario, ma potrebbe mai la politica come la conosciamo, Renzi in primis, indire un'Assemblea Costituente negando con ciò se stessa?
Eppure la storia dei tanti fallimenti riformatori, le tante montagne che hanno partorito topolini, lo stesso fallimento in atto del falso "bipolarismo all'italiana", dovrebbero fornire una bussola, una direzione di marcia a qualunque vero riformatore.