mercoledì 15 ottobre 2014

Generazione Europa al bivio

di Giuseppe Tatarella
Gianfranco Fini martedì ritorna al Parlamento Europeo. Da quelle parti gode di grande credibilità e autorevolezza per l'ottimo lavoro svolto da Ministro degli Esteri italiano e da membro della Convenzione costituzionale europea. In un momento di grande confusione di rappresentanza lo storico leader della destra politica italiana manterrà il suo proposito di non partecipare alle prossime competizioni elettorali. Per fortuna rispetta anche l’altra metà dell’impegno, che è quello di continuare a fare politica, nel senso alto e nobile che questo termine possiede. Lo fa –ed è prezioso lo faccia- su un terreno in cui l’impazzimento valoriale è massimo, è a dire la “questione europea”. Come è stato brillantemente scritto da Beppe Severgnini, l’Europa è sola. Sembra che siano interessati a parlarne solo gli euroscettici, con il loro arsenale di idiozie e bugie, mentre gli europeisti sembrano dominati dall’idea di piegarsi come giunchi in attesa che passi la piena e l’opinione pubblica rinsavisca. In realtà, con tutte le riserve che è giusto avere e manifestare per lo stato dell’arte della costruzione europea, per la politica dei Governi e degli Stati, per le sacrosante motivazioni del malcontento popolare, una destra antieuropea è un’assurdità storica, valoriale e ideologica. Gli epigoni italiani di Marine Le Pen e del Front National sono innanzitutto degli apostati della nostra storia, e quando dico “nostra” intendo quella di Almirante, di Fini, di Pinuccio Tatarella, ma anche della mia generazione. L’Europa nasce innanzitutto come Europa delle rovine e degli sconfitti: la superpotenza americana la consente e il cinismo britannico tollera che Francesi, Tedeschi e Italiani, insieme ai Paesi del Benelux, costituiscano la Ceca e poi la Comunità Economica Europea, perché bisogna evitare che i sovietici e l’Armata Rossa facciano un sol boccone delle immiserite nazioni europee. Un’impostazione anticomunista che non poteva non trovarci consenzienti; in più noi, eredi del fascismo doppiamente sconfitti, vedevamo nell’Europa unita il lungo cammino dell’emancipazione da Yalta e dai suoi decreti. Pensavamo, speravamo, volevamo che l’Europa unita fosse il sussulto di ribellione a un destino del mondo di cui gli Europei e la loro civiltà fossero comprimari e non protagonisti. Un’idea di destra, nazionalista e di antico lignaggio, se pensiamo che ben prima di Benito Mussolini, un signore che si chiamava Giuseppe Mazzini fondò sia la Giovane Italia che la Giovane Europa. Un’idea di cui sottovalutiamo lo straordinario successo: chi come me è nato negli anni Ottanta, è un “nativo europeo”: casa mia è in qualsiasi posto da Lisbona a Wroclaw e da Palermo a Stoccolma, le regole secondo le quali si svolge la mia vita sono sempre più simili in ventotto Paesi, i miei percorsi di studio e di lavoro sono sempre più condivisi ed universalmente validi. E questo senza che io abbia smesso in alcun modo di essere italiano, meridionale, pugliese. Un portento realizzato, in una terra che prima dell’Unione ha avuto trent’anni di pace in due millenni. Paradossalmente è proprio l’enormità del risultato raggiunto che ci porta oggi ad essere distratti o superficiali. La fame e la guerra, con il loro contorno di lutti e di abiezione, non sono che un sogno sbiadito a meno di due generazioni di distanza da quando erano un’evenienza quotidiana. La destra può dirsi orgogliosa di avere contribuito a questo miracolo, la cui fragilità e precarietà ha bisogno di una nostra difesa appassionata e partecipe. Altro che suggestioni transalpine e patetici slogan “no euro”!

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