lunedì 20 ottobre 2014

Perché l'Is rappresenta un nemico mortale per l'Occidente (e non solo)




di Cristofaro Sola



I miliziani dell’Is, guidati da Abu Bakr Al–Baghadadi, sono alle porte della città siriana di Kobane, distante poche centinaia di metri dal confine con la Turchia. Ma sono anche a pochi chilometri da Baghdad. La coalizione guidata dagli Stati Uniti tenta di fermarli con i bombardamenti aerei ma non vi riesce. Perché? L’Is presenta profili strategici molto differenti da quelli delle altre organizzazioni del terrorismo jihadista. Due, in particolare, ne sono elementi caratterizzanti: la territorialità del progetto di Stato Islamico e la stratificazione dei target. L’Is ha cominciato una guerra di conquista territoriale in danno di quei Paesi del mondo arabo nati all’indomani della caduta del plurisecolare impero Ottomano. L’obiettivo dell’Is è la costruzione di uno Stato di musulmani “puri” che si estenda dall’Africa all’Asia. La presa progressiva di città e villaggi determina l’avvicendamento, nelle articolazioni degli apparati pubblici, delle vecchie burocrazie con referenti fidelizzati alla causa fondamentalista. La gestione amministrativa del welfare locale produce crescita del consenso sociale. Nel contempo, la commercializzazione diretta del petrolio, estratto nelle zone occupate, genera autosufficienza economica. Come sostiene Liisa Liimatainen su Limes, la guerra dell’Is ha forti assonanze con l’epopea dei jihadisti che nel 1744 diedero vita al primo regno dell’Arabia Saudita. In particolare, vi sono analogie significative che riguardano lo sviluppo organizzativo degli ikhwan (i fratelli). Quella appartenenza integrale, anche fisica, alla causa del Jihad configura un modello ideologico e comportamentale di intransigenza religiosa molto avvertito dalle giovani generazioni.
Il secondo aspetto che deve essere considerato riguarda la stratificazione del target. Is sta combattendo una guerra totale su livelli differenziati. Ne contiamo almeno tre. Il primo, quello mediaticamente più visibile attiene allo scontro di civiltà con l’Occidente. Il secondo livello, invece, assume come obiettivo la resa dei conti con gli sciiti. Il terzo livello del target è costituito dalla lotta interna alla galassia sunnita. Su questo ultimo aspetto occorre soffermarsi. Spesso si commette l’errore di pensare all’Islam come a un universo religioso monolitico e piuttosto statico. Non è così. La cifra identitaria si colloca proprio nel dinamismo delle sue molte declinazioni. Non esiste un solo Islam sunnita. Gli integralisti di Is sono sunniti wahhabiti. Essi si riconoscono nella figura storica di Muammad ibn Abd Al–Wahhab, vissuto nel XVIII secolo, co-fondatore del primo regno dell’Arabia Saudita e propugnatore degli insegnamenti della scuola coranica hanbalista, già praticati dal teologo siriano vissuto duecento anni prima, Ibn Taymiya, padre spirituale del salafismo. Tra le due correnti di pensiero vi è più di un’affinità. Si potrebbe asserire che salafismo e wahhabismo siano facce della stessa medaglia coniata all’interno della scuola Hanbalista. L’intransigenza morale e religiosa di questi movimenti che invocano un’osservanza rigorosa, non deviante, del Corano e degli hadith agisce da spinta motivazionale per trasferire il principio di guerra santa dal piano filosofico-spirituale a quello propriamente politico-militare. Tuttavia, le articolazioni interpretative religiose incrociano le contraddizioni sociali presenti nel mondo islamico. La lotta ingaggiata dall’Is attraversa il mondo arabo determinando una frattura tra popolo e classi dominanti. I filmati degli sgozzamenti di James Foley e degli altri ostaggi europei e americani sono indirizzati a galvanizzare le masse musulmane piuttosto che a spaventare l’opinione pubblica occidentale. A fronte della pretesa dell’Is di incarnare una visione di riscatto per i diseredati, le classi egemoni del mondo arabo hanno accettato di porsi sotto l’ombrello protettivo della coalizione per prevenire il rischio di contagio dalla diffusione di idee destabilizzanti degli equilibri sociali e religiosi faticosamente raggiunti. Lo scenario rappresentato spiega in parte l’oggettiva difficoltà degli alleati occidentali a muoversi sul campo con disinvoltura. L’Is è un male che non è debellabile per effetto di un vaccino universalmente efficace. Richiede risposte a molteplici livelli. L’opzione militare deve essere esperita fino in fondo. Dopo toccherà alla politica fare la propria parte superando, in nome della sicurezza globale, le resistenze e le astuzie dei troppi egoismi locali. Saranno in grado gli occidentali di troncare la testa al serpente evitando che le ramificazioni del suo corpo continuino a colpire? Saranno i player mediorientali capaci di giungere a un compromesso che assicuri, una volta per tutte, pace e stabilità all’intera regione? Le risposte non tarderanno a venire. Una cosa è certa: se i sanguinari combattenti dell’Is non verranno fermati in tempo, per l’Occidente saranno guai molto seri. Nel futuro prossimo potrebbe realizzarsi la tanto temuta saldatura tra le molte anime del fondamentalismo jihadista. Potrebbero accordarsi su una sostanziale suddivisione dei compiti: all’Is l’incombenza di continuare la battaglia in campo aperto, alle altre formazioni jihadiste l’onere di organizzare la strategia del terrore behind enemy lines - dietro le linee nemiche - cioè a casa nostra. Per questa ragione difendere oggi Kobane ha un senso che annulla qualsiasi incertezza.

Nessun commento:

Posta un commento