mercoledì 15 ottobre 2014

All'Italia non servono riforme spezzatino

di Angelo Romano
Si è aperta la polemica sulle riforme. I custodi della “Costituzione più bella del mondo” cominciano a far sentire i loro lamenti affinché non si cambi niente. Rodotà e Zagrebelski hanno dato il la. E come sempre accade l’Italia si divide, le fazioni si schierano pronte agli insulti reciproci. In pochi si chiedono: dov’è il bene della nazione? Noi siamo tra questi ultimi e ci chiediamo se il pacchetto di riforme “espresse” ipotizzato da Renzi sia desiderabile e utile. La prima considerazione è che le riforme in calendario non hanno nulla di organico. La legge elettorale è un pasticcio peggiore del “Porcellum” e corre gli stessi rischi, per i medesimi motivi, di non passare il vaglio della Consulta. Per altri versi, se il premio di maggioranza garantisce maggiore governabilità, le liste dei “prescelti”, le alte soglie di sbarramento ed il doppio turno costituiscono un pastrocchio intollerabile. Non sarebbe stato meglio, attesa la voglia di riformare, mitigare l’elezione senza vincolo di mandato con un vincolo al programma sottoscritto insieme alla candidatura o con un vincolo di coalizione? Si darebbe così garanzia di continuità alle scelte degli elettori, si arginerebbero i fenomeni del trasformismo e della corruzione e si potrebbe restituire ai cittadini la sacrosanta facoltà di scegliersi chi eleggere. Inoltre si imbriglierebbe la deriva verso l’onnipotenza di certa politica. Non sarebbe stato meglio, volendo impedire alle formazioni più piccole l’ingresso al Parlamento in nome di un salvifico quanto inesistente e sempre più improbabile bipolarismo, riconoscere un diritto di tribuna ai migliori perdenti? In tal modo si garantirebbe la presenza istituzionale di forze minoritarie che, spesso, sono autorevoli e lungimiranti, mitigando al tempo stesso le tentazioni plebiscitarie. Ciò, a maggior ragione, in ipotesi monocameralista. Da ultimo, piuttosto che far riferimento ai modelli di altre nazioni, non sarebbe stato meglio, nel reintrodurre i collegi, ipotizzare un maggioritario plurinominale: la coalizione che prende più voti si garantisce il seggio ma viene eletto il candidato del partito di coalizione che prende più suffragi. Si eviterebbe in tal modo il voto obbligato, “turandosi il naso”, al solo candidato di coalizione catapultato in un collegio garantendo, nel contempo, la competizione tra i partiti a proporre i candidati migliori. Ne guadagnerebbe la democrazia e la qualità della rappresentanza. E ancora, volendo bandire l’ipocrisia dietro cui si nasconde la legittima necessità dei partiti di tutelare le proprie classi dirigenti e che dà luogo, tra l’altro, alle odiose candidature multiple ed alla “forzatura” delle liste, non sarebbe meglio esporre le classi dirigenti dei partiti in liste uniche nazionali, dove i nomi (mettiamo venti o trenta per partito) siano singolarmente spuntabili dagli elettori? I cittadini avrebbero modo di confermare o meno la linea politica del loro partito di riferimento ed anche di punire o premiare i singoli dirigenti politici. Ne guadagnerebbero la trasparenza del sistema e la credibilità della politica. Anche la riforma del Senato, che verrebbe trasformato in un “dopolavoro per consiglieri regionali”, come giustamente ha notato Enrico Cisnetto, non sembra rispondere ad un disegno organico capace di preservare il giusto equilibrio istituzionale. Il problema che dovrebbe risolvere la sua abolizione quale Alta Camera è quello della speditezza della produzione legislativa. Ma siamo proprio sicuri che, posto che esista un problema di produttività legislativa in un Paese che scricchiola sotto il peso e l’astrusità delle norme, la soluzione sia quella di cancellare una Camera? E se si riformassero i Regolamenti e si specializzassero per materie le due Camere non si raddoppierebbe ugualmente la velocità senza correre il duplice rischio di rafforzare la Casta dei Deputati e di creare un’inutile Camera delle Autonomie in un sistema che ha già troppo concesso alle autonomie ed al loro smodato costo e che già ha creato i luoghi di confronto tra Stato e Autonomie? D’altronde la stessa presunta riforma delle Province è un mezzo bluff in quanto le istituzioni restano dove sono, il personale costerà un po’ di più, costeranno un po’ di più le Città metropolitane e l’incremento di consiglieri nei piccoli comuni, la sola cosa davvero cancellata sono i Consiglieri provinciali eletti. Tremila sugli oltre centocinquantamila eletti in Italia, come le auto blu: duecento su sessantamila. Eppure salta agli occhi ed alle tasche dei contribuenti che ben più ampio dovrebbe essere il respiro riformatore per portare l’Italia fuori dalle secche e dagli sprechi. Le Province sono poco utili in presenza di ben venti regioni alcune con meno abitanti di una città, oltre ottomila comuni, 10 città metropolitane (per ora), centinaia di comunità montane anche di pianura, migliaia di società partecipate, consorzi, enti intermedi, autorità e quant’altro ha partorito un sistema impazzito. Però sarebbero necessarie se le regioni fossero solo cinque o sei a “pezzatura” europea ed i comuni fossero accorpati in conglomerati di almeno cinque/diecimila abitanti. Ma sarebbero nuovamente poco utili se si rendessero obbligatorie le Unioni di comuni per la gestione dei servizi di area vasta. Questo per sottolineare l’assoluta necessità di un complessivo disegno riformatore che, visto l’andazzo, non arriverà mai.

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