mercoledì 15 ottobre 2014

Quel piano sul lavoro che manca alla destra

di Valentina Cardinali
Job act, o Piano sul lavoro che sia, Renzi ha fatto centro. In un momento in cui tutti gli indicatori socioeconomici mostrano un paese sfiancato e incapace di riprendersi e di rimettere in moto consumi, produzione, fiducia e in cui la distanza tra paese reale e sfera politica si fa sempre più stridente , proprio in questo momento il Piano di Renzi riporta al centro della discussione politica il lavoro. Seppur discutibile nel merito delle scelte e delle proposte, il Job act è una mossa vincente, sia per una sinistra equilibrista che sembra ancora cercare il suo posto nel mondo , sia per la dialettica politica generale che deve riposizionare il proprio baricentro sugli interessi reali del paese. Peccato che in tutta questa operazione la destra sia completamente assente, impegnata come è ancora a stare in equilibrio tra gli strali di un’ eredità pesante - e ancora condizionante - e il vuoto pneumatico del “salto nel futuro”. Il governo delle larghe intese in questo senso ha fallito, perché è riuscito più facilmente ad accomunare interessi personali e corporativi e meno a far convergere energie e proposte su temi comuni al paese. Risulta incomprensibile capire, ad oggi, perché la destra abbia consapevolmente, nel tempo, lasciato che il lavoro diventasse esclusivamente “una questione di sinistra”, che il tema dei diritti, delle tutele e delle opportunità di crescita e di guadagno delle persone fosse etichettabile come proprio di una parte politica, in logica antagonista. In questa operazione, paradossalmente, il Berlusconismo è riuscito laddove il Marxismo aveva fallito, ossia nell’istituzionalizzare il conflitto di classe, cristallizzando la dicotomia tra lavoratori e datori di lavoro. Per cui, ancora oggi, la destra paga lo scotto di una applicazione faziosa del neoliberalismo di casa nostra, con una predilezione per il lavoratore solo se self made man e con una visione del lavoro come ambito non da costruire, ma da “liberare”, a favore di imprenditori vessati dallo Stato e condizionati da lavoratori belligeranti. Non è questo il contributo che una destra moderna può offrire alla ricostruzione del paese. Ci piacerebbe poter leggere un Job act di destra che parlando di lavoro si impegnasse a riportare al centro del progetto politico l’individuo e la ricchezza da lavoro. Se l’art 1 della Costituzione afferma che la Repubblica è fondata sul lavoro, significa che il lavoro è requisito di una cittadinanza sostanziale e che crescita e sviluppo devono trovare nel lavoro la loro fonte. La finanza, dal canto suo, ha un suo ruolo importante da non demonizzare ma non quello di fondare il progresso del paese. Non si tratta, quindi, di sostenere una battaglia ideologica sul valore lavoro, ma di riposizionare, nel gioco della costruzione del futuro del paese, le pedine a disposizione. Significa affermare che il paese decide di ripartire dalle persone e dal loro contributo sostanziale, e non solo fiscale, al progetto comune. Fondarsi su questi due aspetti, centralità del lavoro e dignità della persona attraverso il lavoro, significa uscire da anni di liberismo contorto e male interpretato e adottare invece pienamente la logica liberale della centralità della persona in un progetto di sviluppo di una comunità politica e sociale in cui tutti si riconoscono e a cui tutti contribuiscono; un sistema che ha come regole il rispetto e il sostegno dei singoli progetti di vita e che offre un sistema di garanzie di diritti comuni fondamentali e di opportunità di sviluppo su base competitiva e non discriminatoria. Per far ciò bisogna restituire all’individuo e all’impresa, il “senso” di appartenenza ad una comunità, che da anni li riconosce in quanto soggetti di prelievo fiscale e a cui chiede sacrifici economici in prospettiva, senza restituire regolarmente servizi o benefici di lungo periodo. Ci piacerebbe poter leggere tutto ciò. Ma a destra di Renzi.

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