mercoledì 15 ottobre 2014

Non si uccide così neanche una giraffa

di Cristofaro Sola
Eppure è ciò che è capitato a Marius, un simpatico giovane esemplare maschio di giraffa, cresciuto all’interno dello zoo di Copenaghen. Alcuni giorni fa la direzione della struttura ha deciso che quel giovane animale fosse di troppo. Non avrebbe potuto generare altri esemplari suoi simili per ragioni di consaguineità con le altre giraffe tenute nella stessa struttura. Quindi, non potendo rendere economicamente mediante la riproduzione, la sua sarebbe stata una vita pari a quella di un parassita. Come si sa, presso le culture dei popoli nordici niente è peggio, nulla è più eticamente degradante che vivere una vita a spese della comunità e questo vale per tutti, umani e animali in genere. Per questa opinabile ragione, la direzione, sorda agli appelli che sono arrivati da altre parti d’Europa e in genere dal mondo degli animalisti, ha deciso per la soluzione radicale: Marius doveva essere abbattuto. Neppure l’esotica bellezza di Marius che avrebbe potuto fare bella mostra di sé in un altro ambiente ha fatto breccia nella fredda mente calcolatrice del direttore della struttura. Neppure l’idea un po’ romantica, un po’ ambientalista che un giorno Marius potesse essere restituito a quell’habitat naturale che la scienza prima e il profitto dopo gli avevano negato di conoscere. Doveva essere soppresso, punto. Ma anche questo non bastava, era necessario che la sua morte conseguisse comunque un’utilità di cui lo zoo potesse avvantaggiarsi. Così hanno deciso che la sua uccisione sarebbe avvenuta mediante una pubblica esecuzione. Davanti a un gruppo di adulti e bambini incuriositi, Marius è stramazzato al suolo dopo un colpo di pistola alla tempia. Il programma prevedeva anche una parte didattica: gli inservienti hanno provveduto a squartare il povero animale per improvvisare una sorta di autopsia. Il suo corpo fatto a pezzi è finito poi tra le fauci dei leoni della gabbia accanto, per la soddisfazione dei presenti e la gioia dei tanti darwinisti biologici che ancora girano a piede libero per questa strana Europa. Ora, qualcuno penserà: quante storie per la soppressione di una giraffa in un momento nel quale molte vite umane non reggono sotto il peso non più sopportabile di una crisi devastante. Può darsi. Riconosco che a volte ci lasciamo prendere la mano dalle emozioni stimolate dal mondo virtuale che vive negli interstizi della rete. A volte permettiamo che il peso dell’immagine faccia aggio sulla realtà, alla quale non concediamo la stessa dose di pulsioni che invece di buon grado offriamo alle sinapsi dell’intelligenza artificiale. E’ tutto vero, ma io sto con Marius e proprio non mi va giù il modo con cui si è conclusa la sua breve vita. Cerco di spiegare perché. Proviamo a immaginare il destino tragico di Marius come metafora dei nostri tempi. Innanzitutto, la spettacolarizzazione della sua morte. Nella nostra cultura profonda la morte, quale fondamento concettuale, assume un ruolo decisivo per la formazione della coscienza individuale e comunitaria. Si può ben dire che l’essere umano viva la sua esistenza nella certezza del suo esito finale a cui, nonostante ogni evidenza contraria, fatica ad adattarsi. La consapevolezza dell’uomo dotato di spiritualità lo conduce a porsi in modo dialettico di fronte all’evento che reca in sé il dipanamento di tutte le incognite maturate nel corso della sua esistenza fisica. Per l’ homo philosophicus delle categorie antropologiche, la morte diviene sfidabile attraverso la virtù, sia essa virtù eroica, sia essa virtù morale. Eppure raramente essere umano si è concretamente discostato dal pensiero della morte come frattura. E’ il miltoniano “spettacolo di terrore; morte deforme e orrenda a vedersi; orribile da pensare e quanto orribile da sopportare”. La consistenza del trauma che essa produce è stato misurato da Edgar Morin nella distanza spaziale che separa la coscienza della morte dall’aspirazione alla vita ultraterrena. Questa condizione non negoziabile genera, nell’homo religiosus, la consapevolezza della dimensione escatologica, tutta interiore, dell’evento irreversibile che lo conduce sulla soglia di quelle che lo storico francese Jean Delumeau definisce “le utopie”. In quel luogo che è assenza di luogo l’uomo va a cercare il divino per liberarlo dagli abissi di luce della propria coscienza dove era stato nascosto durante il tempo dell’esistenza dell’essere fisico. Si tratta del tentativo ultimo, definitivo e perciò stesso disperante che l’uomo compie, nella speranza del ricongiungimento con Dio, per restituire significato e dimensione metastorici alla propria esistenza terrena. La morte allora, per l’ homo religiosus, si rappresenta come fattore intimo di ascesa individuale a un diverso stadio di esistenza, non condivisibile dall’insieme comunitario, essa presenta un contenuto di tempo e di spazio da destinare all’incontro con Dio. Un incontro cercato e provocato nella medesima convinzione già narrata da Sant’ Agostino nelle sue Confessioni:” Non esisterei affatto, mio Dio, se tu non fossi in me. Anzi non esisterei affatto se io non fossi in te, dal quale, per il quale e nel quale tutte le cose hanno l’essere”. Eppure la nostra società, spinta all’estremo, per alimentare la logica dei consumi, ha rotto gli steccati del recinto che, nella storia della civiltà umana, ha garantito sacralità all’atto finale della vita individuale. La forza profanante della commercializzazione dei sentimenti è giunta alla soglia ultima della vita facendo anche della morte ragione di profitto. La rappresentazione icastica della morte riprogrammata attraverso l’esposizione abusata di corpi esanimi e di scene di violenza vomitate dai programmi televisivi sono materia quotidiana anche nella diseducazione delle giovani generazioni. Ne faremmo volentieri a meno ma questo è ciò “che passa il convento”. Qualcuno è giunto a sostenere che tanta esibizione di morte in tv finisca per assolvere a una funzione propriamente apotropaica. E’ possibile. Si tratterebbe di un mezzo molto efficace, in uso nel tempo storico della ricerca della felicità sebbene solo apparente, per allontanare da ciascun individuo l’idea stessa della morte percepita e vissuta come fine dei consumi. Ne vedi tanta che non ci fai più caso. D’altro canto, questo intento subliminale ha una sua ragion d’essere: il sistema vuole individui disponibili a consumare che non collassino nei loro stessi pensieri profondi. A rimedio, l’abuso di scene di morte genererebbe una difesa autoimmunizzante nell’homo consumptor. Si affronta la morte, ma la si può anche procurare. Questo potere che l’uomo riconosce a se stesso viene filtrato dal contenuto etico del suo agire. Tuttavia, la morale maturata nell’ambito della nostra civiltà ci ha condotti a un approdo avanzato: a considerare preminente il valore della vita da difendere, a ridurre ogni atto che provochi la morte altrui alle sole condizioni di necessità e, di conseguenza, a sanzionare con severità ogni azione omicidiaria che non trovi legittima giustificazione. Parliamo, com’è ovvio, dei doveri che la Morale e il Diritto assegnano a ognuno di noi verso gli altri esseri umani, senza distinzione alcuna. Ma la nostra civiltà avanzata non si è fermata qui, è già oltre. Nell’ethos comunitario si è consolidata l’idea che anche le altre specie viventi meritino riguardo, rispetto al loro diritto di vivere o di essere sacrificati soltanto per ragioni di inoppugnabile funzionalità alla sopravvivenza della specie umana, come nel caso degli animali destinati ad uso alimentare o alla sperimentazione scientifica. Comunque, per tutti loro gli ordinamenti giuridici prevedono tutele sia per quel che concerne il divieto di maltrattamenti, sia per quel che attiene all’evento traumatico della morte. Vi è una dignità nell’atto di cessare la vita che va rispettato e difeso anche per un animale. La spettacolarizzazione di una morte, di una qualsiasi morte resta un oltraggio che degrada chiunque se ne renda responsabile. Gli italiani, di questo aspetto problematico, sono certamente avvertiti se è vero che, secondo le stime dell’Associazione Nazionale Medici Veterinari, la presenza di animali domestici che completano gli assetti delle famiglie italiane è diffusissima. I nostri amici canini a quattro zampe sono presenti nel 21,5% delle famiglie mentre i gatti lo sono per il 19,9%. Ma non mancano altre specie di animali da affezione come uccelli, pesci, conigli, cavalli, asini, caprette, tartarughe e altri esemplari esotici. Ciò significa che un gran numero di nostri connazionali ritiene del tutto normale estendere la propria sfera affettiva anche a componenti non umane del proprio ambito esistenziale. Sebbene il fenomeno dell’abbandono degli animali sia presente e statisticamente rilevato, per fortuna in Italia non costituisce prassi ricorrente. Al contrario, ha avuto efficacia il fatto che il legislatore sia intervenuto a sanzionarne la pratica come comportamento illecito e le massicce campagne di sensibilizzazione al problema effettuate dai media con la partecipazione, come testimonial, dei più amati beniamini del pubblico televisivo, hanno favorito l’effetto di un sensibile calo dei casi di abbandono.  Orbene, coloro che convivono con animali domestici hanno imparato a confrontarsi con il gap naturale che vi è tra l’uomo e le altre creature nell’aspettiva di durata della vita biologica. Ogni persona che si accompagna a un animale domestico sa che dovrà fare i conti con una diversa e più breve evoluzione dell’arco temporale di vita dell’animale. Per quanto ogni persona ne sia razionalmente consapevole, la morte del proprio compagno a quattro zampe, nondimeno, produce dolore da distacco intenso, a volte lacerante, con il quale ci si deve misurare fino al punto che anche il lutto per la sua perdita meriti di essere elaborato dal punto di vista psicologico, al pari del lutto per la scomparsa di qualsiasi altro componente umano del proprio universo affettivo. Una persona che assiste e accompagna un animale nei suoi ultimi istanti di vita sa, percepisce, quanto quel momento in sé unico richieda tutto il pudore possibile perché, nel silenzio e al riparo dalla violenza degli sguardi curiosi, un destino si compia, una vita termini. Nessun individuo dalle nostre parti oserebbe prestare il suo amico animale a una macabra rappresentazione spettacolare della sua dipartita. A maggior ragione, nessun individuo che non fosse un criminale o semplicemente uno scriteriato, potrebbe trarre godimento dall’assistere al dramma di un’uccisione benché si dovesse trattare di un essere animale. Non so dire se Marius avesse anche una minima porzione di quell’essenza di puro spirito che siamo soliti chiamare anima, non so neppure se si sia reso conto della fine imminente, improvvisa, portata dalla mano che fino al giorno prima l’aveva nutrito. Non so se pochi istanti prima del colpo di pistola che se l’è portato via gli sia scorsa innanzi tutta la sua breve vita, come alcuni dicono che avvenga quando si è compiuto il tempo. Ma la violenza portata al suo corpo esanime è un atto di barbarie e non ha niente, proprio niente di educativo. Ha invece tanto di razzista nella rappresentazione implicita di una leggenda metropolitana che passa per essere legge della giungla, dove il più forte, l’uomo, eserciterebbe il suo diritto sovrano sugli inferiori, quali sarebbero gli animali, di togliere a proprio piacimento loro la vita e concederne i corpi perché altri vi si nutrano. Consiglierei massima attenzione nel sorvegliare queste sgradevoli pantomime della ferocia della lotta per la sopravvivenza. Se lasciamo che dei bambini recepiscano come naturale, quindi moralmente accettabile, l’idea della soppressione di vite ritenute superflue, benché di origine animale, rischiamo di finire su di una china pericolosa giacché su per la scala del creato, di gradino in gradino, si arriva alla specie umana. La nostra storia europea, anche recente, non si è fatta mancare nulla da questo punto di vista. La demonica convinzione che vi siano in giro degli inferiori che campano sulle spalle dei forti di cui ci si dovrebbe liberare non è una fantasia di una mente malata ma un preciso punto programmatico di qualche demenziale partito politico che, in periodi di crisi, riesce a raccogliere consensi in giro per il continente. Sovente noi italiani siamo soliti autofustigarci per le tante cose che facciamo male e altrettante volte lasciamo che siano gli altri a raddrizzarci il pelo per non essere stati sempre all’altezza delle altrui aspettative. Questa volta però dobbiamo dirlo: quella porzione di popolo danese che si godeva la scena dell’esecuzione di Marius proprio non ci è piaciuta. E seppure per un solo momento dovessimo sospettare che è questa è l’Europa che ci attende, allora sarei il primo, convinto europeista qual sono, a dire: No! Non ci sto. Questo non è il mondo in cui avrei desiderato vivere. Ma che mondo è mai quello che non sa cedere alla pietà, nel suo significato pieno, alto, di Pietas. Parlo del Mos Maiorum che a noi si tramanda dai tempi dell’antica Roma repubblicana. Parlo di Pietas, quella cantata da Virgilio nella sua Eneide, che giunge alla compenetrazione dell’”heroe”nella sofferenza altrui. E’ la Pietas cristiana del sacrificio del Dio vivente che si immola per la salvezza dell’umanità. E’ la Pietas cavalleresca che incrocia i sentimenti di giustizia con il dovere della difesa dei deboli. E’ la Pietas dantesca che tutto travolge "Sì che di pietade io venni men così com' io morisse. E caddi come corpo morto cade". E’ la Pietas dei martiri e dello “scandalo” del loro sacrificio per l’altrui salvezza. E’ la “mirra” dei magi che noi italiani ci apprestiamo a portare in dote alla causa dell’integrazione europea perché da tante contrade, da tante lingue, nasca una sola patria eretta sui valori più alti, e più nobili, che pensiero umano abbia mai concepito. E il corpo dilaniato di Marius è un ostacolo sul cammino che ci attende. Non è calpestandolo o ignorandolo che riusciremo a progredire nella nostra marcia.

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