mercoledì 15 ottobre 2014

Non basta una legge, la sfida per il lavoro si chiama competitività

di Gianfranco Fini
C'è davvero da augurarsi che l'imminente "Piano per il lavoro" di Renzi consenta all'Italia di uscire definitivamente dalla stagione delle promesse elettorali e delle formule magiche e contribuisca ad avviare la ripresa economica. In questi anni, accanto ai vincoli finanziari, è stata infatti proprio l'assenza di una strategia di lungo periodo e l'incapacità di andare oltre gli interventi spot ad impedire all'economia italiana di ripartire. Adesso non ci sono più consentiti alibi o ritardi, come dimostrano i dati drammatici su Pil, livelli di disoccupazione e dinamiche dei redditi. E' una sfida ineludibile per tutti, senza distinzioni politiche. "Liberadestra", l'associazione politico culturale che ho costituito nei mesi scorsi, ha elaborato una serie di riflessioni e di indicazioni che mi auguro contribuiscano al dibattito. E' di certo ingenuo immaginare che un Piano per il lavoro possa contenere la ricetta magica per l'aumento stabile dei tassi di occupazione, comprensivo sia della riallocazione di chi il lavoro lo ha perso, sia di chi nel mercato del lavoro non è ancora riuscito ad entrare. Se sviluppato in sinergia con le politiche economiche, fiscali e sociali, può tuttavia segnare la via per stimolare la produzione e far ripartire i consumi. Con una consapevolezza e un'assunzione di responsabilità: decisioni rivolte al presente hanno un immediato riflesso nel futuro. Stante l'attuale sistema contributivo, infatti, il trattamento pensionistico viene a dipendere direttamente dalla tipologia di percorso lavorativo effettuato e quindi l'obiettivo di aumentare l'occupazione tout-court non può prescindere dalla riflessione sulla qualità dell' occupazione e sul suo livello di stabilità, intesa come continuità di reddito e quindi di contribuzione. Il concetto di stabilità implica due chiare consapevolezze: l) il sistema di ammortizzatori sociali va modulato per sostenere la discontinuità occupazionale, ed in questo senso i segnali che provengono dalle prime anticipazioni sul Piano del Governo sembrano incoraggianti. Promozione dell'occupazione e sostegno alla perdita di occupazione devono infatti andare di pari passo, altrimenti il precariato diventa una piaga sociale irreversibile e il rischio di perdere il lavoro si trasforma in un incubo che va ben oltre una situazione fisiologica di mercato. 2) alla flessibilità contrattuale va restituita la sua funzione originaria di deroga controllata, e non di strumento per abbassare il costo del lavoro, sfatando il pregiudizio che sia proprio la presunta rigidità di un sistema di tutele del lavoratore a frenare la crescita e gli investimenti. Se è vero che la flessibilizzazione dei rapporti di lavoro dal '97 ad oggi ha portato ad un aumento apparente degli indicatori occupazionali, è vero anche che non ha dispiegato i suoi effetti su redditi e crescita del paese, tanto è che sono rimasti drammaticamente irrisolti i problemi della debolezza nel mercato di giovani e donne e del divario territoriale tra Nord e Sud del paese. La questione centrale che il Piano deve affrontare è come creare il lavoro quando il lavoro non c'è. Le politiche messe in campo sinora hanno peccato di miopia, illudendosi che bastasse una diversa regolamentazione dei contratti per costruire nuovi posti di lavoro, o una distribuzione diffusa di incentivi per sperare in una ripresa con il risultato che la via regolamentativa non ha sortito gli effetti sperati e che gli incentivi distribuiti sono spesso andati ad agevolare assunzioni che comunque si sarebbero effettuate e che non hanno intercettato i target maggiormente bisognosi. Ciò perché non si può sperare di creare lavoro per legge quando il lavoro non c'è. La stessa annunciata riduzione del costo del lavoro per le imprese, per quanto necessaria, non è detto che porti automaticamente ali 'aumento della occupazione. E' certo che le imprese assumeranno se avranno maggiori possibilità di produzione, vendita di beni e servizi e quindi di guadagno. La vera sfida, pertanto, non va giocata al ribasso, sulla riduzione del costo del lavoro, ma al rialzo sul versante della competitività, dell'innovazione, della ricerca e della tecnologia. Su questo versante si devono individuare i settori chiave di investimento strategico, economico ed occupazionale, e si deve definire una politica industriale (o postindustriale). Sono scelte strategiche che devono riguardare anche la revisione del sistema di formazione professionale e della sua attuale articolazione in livelli, rendendolo realmente uno strumento adeguato di transizione tra istruzione e lavoro. Nel complesso, Liberadestra pensa ad una sorta di nuovo new deal che proponga investimenti In infrastrutture sociali e beni di interesse collettivo, compresi i servizi che rispondono ai fabbisogni di welfare non coperti, in una ritrovata partnership funzionale tra Stato e Regioni. La diffusione di servizi di cura, di facilitazione della mobilità, di miglioramento della gestione dei tempi, può rappresentare un vasto potenziale occupazionale. Le anticipazioni sul Piano del Governo annunciano piani specifici per cultura, turismo e nuovo welfare. E' un buon punto di partenza, purché non restino misure isolate ma rappresentino l'attuazione di un disegno strategico sostenuto da un piano economico, un sistema fiscale e un piano di politiche sociali idoneo a ridistribuire alla collettività i benefici della ritrovata capacità di produrre ricchezza. (da Il Messaggero - 11 marzo 2014)

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