mercoledì 15 ottobre 2014

A proposito del piano sul lavoro che manca alla destra

di Cristofaro Sola
A proposito del pregevole articolo “quel piano sul lavoro che manca alla destra” apparso nella home page di Libera Destra, propongo alcuni spunti di riflessione. Valentina Cardinali, che dell’articolo è l’autrice, asserisce che la destra italiana abbia permesso alla “questione lavoro”di divenire un territorio di caccia esclusivo della Sinistra. In realtà, il tema del lavoro rappresenta il motivo conduttore che lega il passato della tradizione operaista della sinistra alle nuove politiche della cittadinanza attiva che costituiscono l’approdo al socialismo, in versione riveduta e corretta, delle forze progressiste della “seconda Repubblica”. Valentina individua la causa di questa perdita di terreno nel berlusconismo che avrebbe cristallizzato il conflitto di classe molto più di quanto non l’avesse già fatto la critica marxiana alla organizzazione capitalista della produzione. Secondo la sua valutazione la Destra recente non avrebbe voluto considerare la figura sociale del lavoratore alla stregua di un coattore del processo di consolidamento della democrazia rappresentativa, invece avrebbe ostinatamente preferito legittimare, nella composizione del proprio blocco sociale di riferimento, esclusivamente il self made man, o meglio il “fenotipo” di imprenditore-lavoratore il quale dalla rottura di sistema attende di essere liberato perché oppresso dallo Stato- Leviatano e vessato dal suo naturale antagonista che è il lavoratore- belligerante. La conclusione dell’articolo apre alla speranza di uno scatto d’orgoglio che spinga la Destra a pronunciarsi magari sulla redazione di un “Job Act” che parli ai lavoratori con un linguaggio diverso da quello finora conosciuto e praticato. Tuttavia anche all’autrice non sfugge che questo resta al momento un buon auspicio che non ha ancora trovato apparentamenti con la realtà. È plausibile che le cose stiano così come sono state descritte nell’articolo citato. È  vero che il centro-destra si sia lasciato trascinare, negli anni della seconda Repubblica, all’interno di una visione caparbiamente ideologica del mondo del lavoro senza tentare di intraprendere un proprio autonomo percorso di riforma radicale del sistema la quale non suonasse come punitiva per la forza lavoro. Si pensi, ad esempio, alla battaglia all’arma bianca ingaggiata sulla questione dell’abrogazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Mi riferisco alla norma ante riforma del 2012 che di fatto impediva alle imprese con almeno 15 dipendenti il licenziamento del lavoratore per motivi diversi dalla giusta causa. L’idea di sciogliere le briglie all’impresa, perché potesse una buona volta muoversi in assenza di vincoli supplementari alla implementazione dei processi produttivi, resta un’antica aspirazione del liberismo nostrano e dei suoi fautori i quali si collocano politicamente, con legittimo diritto, nell’ambito della Destra. D’altro canto le teorie economiche le quali pongono l’accento sulla profittabilità delle imprese sono parte dell’ordito politico che sul piano internazionale viene identificato con il sistema valoriale della Destra. Non è stato forse il padre del neoliberismo concepito nella Scuola di Chicago, Milton Friedman, a dire che l’unico imperativo morale per l’imprenditore è produrre profitto? Le sue teorie influenzarono, negli anni Ottanta dello scorso secolo, le condotte di due fari indiscussi della destra politica: Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Freeman sfidò apertamente tutte le posizioni “aperturiste” nel campo della responsabilità sociale delle imprese sostenendo una ferma opposizione alla istituzionalizzazione degli stakeholders quali soggetti diversi dagli azionisti/proprietari che potessero avere voce in capitolo nelle scelte strategiche delle aziende. Eppure, per quanto la cosa possa apparire paradossale, c’è dell’altro da questa parte della frontiera. Lo attestano gli stessi Karl Marx e Friedrich Engels che nel Manifesto del Partito Comunista, passando in esame le ideologie nemiche del movimento operaio, vi includono il “socialismo feudale” per il suo carattere anticapitalistico, antiborghese e antiliberale il quale, attraverso la qualificazione di “feudale”, richiamerebbe a loro dire una visione del mondo totalmente reazionaria. Sebbene la lettura marxiana appaia chiaramente forzata per effetto di un’interpretazione volutamente faziosa, resta il fatto che non ci si sia allontanati troppo dalla realtà.  Vi è un’intera generazione di uomini della Tradizione, orgogliosamente radicati nella Destra italiana, che sono cresciuti apprendendo gli insegnamenti autentici e correttamente interpretati di chi, come Julius Evola, sosteneva che la natura profonda dell’economia non avesse un’essenza angelica, bensì demonica. Seguendo questa linea di pensiero è agevole comprendere del perché in molti a Destra ritengano che il consumismo sia oppio per le viscere dei popoli e non balsamo per le coscienze. E neppure siano mai riusciti a riconoscersi nell’unico leader che, dal secondo dopoguerra ad oggi, abbia in qualche modo tentato, sebbene senza successo, di ricomporre la destra dandole una espressione unitaria. Per un momento soffermiamoci su questo punto. Berlusconi ha spiegato il sostanziale fallimento della sua esperienza di governo paragonandosi a un Gulliver reso inoffensivo dai legacci sottili ma resistenti con il quale un popolo di lillipuziani lo avrebbe costretto al suolo negandogli libertà di movimento. “Non ho fatto ciò che avevo in mente di fare perché i piccoli partiti miei alleati me lo hanno impedito”. Questo è il refrain della melodia intonata da Berlusconi. Bizzarra come giustificazione, ma pur sempre una giustificazione da considerare. Vera? No! Per la elementare ragione che essa si basa su un postulato assolutamente errato. In realtà quelli che egli considera gli alleati minori, i lillipuziani della favola di Gulliver, non sono affatto tali, al contrario si tratta di una contrapposizione insanabile non tra uomini in carne e ossa, anche se Berlusconi abbia fatto di tutto per farlo credere, piuttosto tra idee, tra correnti di pensiero, tra paradigmi etici, tra modelli socio-economici troppo distanti tra loro da consentire di innescare il processo di sintesi che avrebbe condotto all’adozione di misure politiche concrete. Il fatto che lo stesso Berlusconi si sia sempre definito fieramente - un imprenditore -non-politico, ne evidenzia il limite d’azione nell’incapacità, nonostante la sua indiscussa attitudine comunicativa, a corrispondere a un’istanza di ricomposizione culturale avvertita a vari livelli di consapevolezza dal blocco sociale di riferimento della Destra politica. Questa apparente contraddizione rinvia alla problematica di fondo degli ultimi anni di cui la vicenda del piano sul lavoro rappresenta una delle tante conseguenze. La verità è che l’idea di una Destra italiana si conferma un concetto in sé fallace giacché non è possibile, alla luce del pregresso storico datato dalla fase risorgimentale, che si riesca a ridurre l’intero campo, avversario della sinistra, a una sola componente. Per questo motivo è più sensato che si parli di Destre che nel nostro sistema politico-sociale sono sorte e hanno trovato quartiere. A cominciare dall’Ottocento dello scorso millennio allorquando ideologie autoctone, originatesi nello schieramento progressista prodotto dagli esiti della propagazione dell’illuminismo filosofico e politico, sono state espulse a seguito dell’avvento totalizzante dell’ideologia marxista. E’ il caso del liberalismo, come pure del frutto maturo caduto dall’albero del sindacalismo anarco-rivoluzionario di Georges Sorel: il fascismo. Analogo discorso potrebbe essere svolto sulla questione delle radice storica del nazionalismo. In ultimo, è il caso più recente, si deve registrare la diaspora della quota del socialismo autonomista italiano che, a seguito delle vicende connesse alla caduta traumatica della Prima Repubblica, è approdata, armi e bagagli, in quell’ "altrove” che pure i suoi militanti avevano fieramente osteggiato fino a qualche tempo prima. Con una certa dose di ironia si potrebbe asserire che se si fosse applicata la cosiddetta “Bossi- Fini” alle ideologie migranti, oggi gli allievi del pensiero di Destra starebbero a scambiarsi considerazioni e commenti su un Edmund Burke, un Donoso Cortés o un Carl Schmitt alla luce del sole, piuttosto che leggerli nella clandestinità o passarseli sottobanco nel timore che, se scoperti, si venga etichettati come soggetti alieni (peggio ancora: alienati). D’altro canto era del tutto evidente che le ondate successive di trasmigrazione ideologica dall’una all’altra parte del campo, in senso unidirezionale, avrebbero determinato contaminazioni e rimescolamenti di idee e di proposte, certamente a vantaggio della ricchezza degli argomenti prodotti ma in danno della sintesi, indispensabile per un agire politico omogeneo. La Sinistra, al contrario di ciò che è accaduto per la Destra, ha vissuto con minore difficoltà il problema della frantumazione delle correnti ideologiche al suo interno. Sebbene la sua storia sia stata fondata sulla proliferazione dei tanti “marxismi”inimicissimi tra loro, espressione cara a Norberto Bobbio, nel tempo la prassi politica ha consentito una sostanziale riduzione a due grandi canali/contenitori del mainstream che ha attraversato, fertilizzandolo, il campo della Sinistra storica. Si può dire che, alla fine, tutto sia ricondotto, in una sorta di rudimentale antropologia, alternativamente al massimalismo, incardinato nelle scelte della “terza Internazionale” che dà luogo, ovunque nel mondo, alle esperienze totalitarie del comunismo al potere declinato secondo la teoria politica di Lenin o al revisionismo riformista, frutto della correzione di rotta Kautskiana avvenuta con la “seconda Intenazionale”, che riapre le porte al socialismo interpretato secondo il principio del libero sviluppo di ognuno come condizione del libero sviluppo di tutti. Tuttavia, la differenza sostanziale che la Sinistra marca concettualmente rispetto alla controparte, risiede nella sua esclusiva caratteristica di farsi portatrice di “una nuova e superiore civiltà” fondata su di una riconfigurata disciplina delle forze produttive. Ne consegue la sua propensione ad essere forza agente nel macrocosmo egualitarista che ingloba il suo campo. La Sinistra possiede in sé gli strumenti in grado di assorbire, riducendolo mediante processi di sintesi dialettica, il maggior numero di contraddizioni esistenti al proprio interno. A cagione di ciò non rappresenta un assurdo logico che si sia dato vita alle stesse coppie assiologiche che avrebbero invece dovuto connotare i due campi avversi. Così che nello sviluppo dell’ideologia marxista ritroviamo i binomi alternativi di progressista/conservatore, di giustizialista/garantista, di operaista/migliorista o, per riprendere la formula introdotta da Carl Schmitt, di amico-nemico, applicati alle posizioni interne alla medesima parte politica. Dunque, tornando alla vicenda della Destra italiana, l’aver albergato, sotto le stesse insegne, offerte politiche sostanzialmente diverse, se non addirittura opposte, ha sovente generato quell’immobilismo la cui conseguenza finale ha comportato l’incapacità strutturale di produrre politiche coerenti. Bisogna riconoscere che, nell’agone politico, il “campo d’Agramante” sia stato fondamentalmente quello di Destra. Il pensiero di Valentina Cardinali ce lo ricorda. Noi siamo per il ristabilimento della dialettica interclassista o per il suo superamento? Il principio verticale della gerarchia trova ancora posto nella concezione liberale dello Stato- orizzontale? E spingendoci oltre: siamo per la protezione corporativa delle categorie o pensiamo che nel mercato del lavoro debba regnare incontrastata la libertà assoluta del matching domanda/offerta? Lo Stato deve essere regolatore delle dinamiche delle relazioni industriali o deve limitarsi a sussidiare l’impresa, quando richiesto? La contrattazione collettiva è un valore da sostenere o un tabù da abbattere? La flessibilità è per noi un orizzonte che si apre sul futuro delle nuove generazioni per cui ci apprestiamo ad accoglierla con favore nel nostro lessico domestico? Se è così, allora come la mettiamo con il dogma dell’inamovibilità dal posto di lavoro del pubblico dipendente? E lo Stato, vogliamo che faccia ancora la parte del guardiano del gregge attraverso uno stringente reticolo di norme che condizioni il mercato del lavoro, oppure diamo ascolto alla logica della globalizzazione pensando che la sua funzione debba limitarsi a quella di erigere lo steccato entro il quale stiano “libere volpi in libero pollaio”? Sono solo alcune delle domande che una persona di destra potrebbe porsi avendo a disposizione non una sola, come sarebbe logico, ma una molteplicità di risposte tra loro alternative. Se, dunque, la patologia diagnosticata è quella dell’incapacità di fare sintesi delle diverse proposte che emergono dalla stessa parte del campo, allora appare inutile, e dannoso, intestardirsi sulla vicenda della leadership dell’ipotetica destra. Non saranno certo le sfide tra improbabili personaggi in cerca d’autore, in elezioni primarie pirandelliane, a ridare forza e vigore a una parte politica la cui capacità propulsiva appare, al momento,dimidiata. Occorrerebbe una stagione di confronto interno, ancorché serrata, per l’identificazione di alcuni punti programmatici omogenei sui quali ricostruire l’identità finale della Destra. Per fare ciò è necessario che ci si sfidi, o meglio, si ingaggi una sfida tra differenti modelli ideologici da offrire al giudizio del popolo di Destra. Sarebbe una gran cosa se si combinassero le “primarie” delle idee. Solo allora si potrebbe cominciare a costruire un “Renzi di Destra” che abbia un profilo di leader realmente in sintonia con la sua gente. Comunque, sarebbe estremamente salutare per le sorti future della Destra che si producessero interazioni tra posizioni omogenee per giungere quanto meno a restringere il campo a soli due grandi filoni ideologici, aperti tra loro al confronto, nei quali incanalare tutte le espressioni e le correnti di pensiero che dichiarano di collocarsi nella medesima parte del campo. Richiamando il giudizio di un allora giovane Ernesto Galli della Loggia, forse è giunto il momento in cui la Destra nel suo complesso faccia i conti con il proprio tempo. Se la Sinistra sia sempre stata in linea con l’avanzare della storia, non altrettanto è stato per l’altra parte. Sebbene a diverso grado e con differenti modalità, tutte o quasi le correnti ideologiche che hanno animato il campo della Destra, invece, hanno posto in discussione la modernità, chi negandola radicalmente, chi limitandosi a criticarne le manifestazioni e chi sopravanzandola attraverso la proiezione direttamente verso il futuro. L’odierna realtà restituisce un’immagine di un Paese in crisi profonda che attende risposte efficaci per riprendere il proprio cammino. E per quanto a molti piaccia credere nella suggestione dell’insegnamento cristiano del “Voi non siete di questo regno”, trovando più consono acconciarsi a vivere l’eternità, è indispensabile, come ha spiegato Valentina Cardinali nel suo articolo, che ci si prepari ad agire “hic et nunc” sul piano della proposta organica prodotta a Destra. E’ utopia realizzarla? Forse. Tuttavia, è un dovere provarci.

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