mercoledì 15 ottobre 2014

I costi indiretti del jobs act


di Gianfranco Fini

Il travagliato passaggio al Senato del disegno di legge delega al Governo sulla riforma del mercato del lavoro ha sancito i pregi del “governo del fare”, ma anche i costi indiretti in termini istituzionali. La delega ottenuta dal governo sul tema lavoro è ampia, copre molte materie ma presenta un ampio margine di intervento attraverso i decreti attuativi. Già la trasposizione in quella sede della questione dell’art.18, improvvisamente trasformato da totem ideologico a requisito tecnico da disciplinare in sede regolamentare, richiede una particolare vigilanza a che tali decreti non eccedano i limiti della delega. La delega è sì figlia delle inevitabili mediazioni tra le forze in campo, ma anche di uno stile di governo che non ha ancora chiara la distinzione tra fretta e urgenza, e sotto l’alibi dell’urgenza, agisce in fretta ritenendo ingenuamente che l’efficienza si misuri sulla rapidità. Eppure Renzi dovrebbe aver imparato, ormai, che il premier non è un sindaco e il Parlamento non è una riunione di giunta. Ci sono regole che non possono essere “rottamate” semplicemente perché in vigore prima del suo arrivo.
Il senso “istituzionale” del proprio mandato, il rispetto e il valore delle istituzioni, compresa la gestione del dissenso interno, non sono un intralcio. Pertanto, non si può concordare sull’iter che ha condotto a votare - oltretutto con la fiducia - la delega su un tema collettivo come il lavoro, sottraendolo al dibattito del Parlamento. Un’operazione che ha trasmesso implicitamente il messaggio che il dibattito è un “rallentamento” e che il funzionamento del principale organo di rappresentanza degli italiani comporta una perdita di tempo. Nel merito del jobs act, nessuno nega l’urgenza di affrontare la questione lavoro, ma con queste modalità il confronto con il Parlamento ha poco valore, sia in fase di scrittura della riforma, sia in fase di ratifica. Se il dibattito viene sostituito sistematicamente dalla questione di fiducia allora tanto vale “istituzionalizzare” le riunioni di partito e gli accordi variamente sanciti in sede extra parlamentare.
Ma siamo proprio sicuri che siano queste le nuove riforme istituzionali di cui abbiamo bisogno? O magari serve una disciplina e una cultura delle regole diversa? Liberadestra ha sempre sostenuto una riforma dello Stato in chiave presidenziale, ma non abbiamo certo in mente il modello del decisionismo renziano. Un parlamento forte è il requisito principale per l’efficienza di un esecutivo forte e resta comunque la principale garanzia di rappresentatività del Paese. Adesso invece, sotto la minaccia o la promessa di un'altra fiducia alla Camera, si attende l’approvazione definitiva della delega. E entro sei mesi il Governo dovrà redigire i decreti attuativi. Qualche ultra renziano sottolineerà come sia “rapido ed efficiente” il nostro governo; senza pensare che in democrazia spesso la forma è anche sostanza. E da questo punto di vista c’è ben poco di cui rallegrarsi.

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