mercoledì 15 ottobre 2014

Referendum in Veneto, una pagliacciata che nasce dalla crisi

di Matteo Zanellato
Due milioni e quattrocento mila persone hanno deciso di votare per l’indipendenza del Veneto. Favorevoli o contrari, sono stati il 73% degli aventi diritto a votare. O forse no, visto che dubito esistano un Toni Sugaman (Antonio Asciugamano in dialetto veneto) e un Giuseppe Mazzini nato a Genova nel 1880. Dobbiamo quindi scindere le due cose: il referendum e la strada legale da percorrere da una parte; il malcontento del popolo dall’altra. Che il referendum sia una pagliacciata l’ha già dimostrato il comitato dei giuristi, pagato dalla regione Veneto, spiegando che la via legale alla separazione dell’Italia non esiste. Il referendum era consultivo, non aveva valore legale, e le spiegazioni che da il comitato per il si sono insufficienti su tanti punti: chi riconoscerebbe il Veneto sovrano? Il debito pubblico resterebbe a Roma o verrebbe ceduto in parte a questa nuova entità statuale? Nemmeno a livello storico-culturale la voglia di staccarsi da Roma ha fondamenta: l’obiettivo della Repubblica Serenissima di Venezia era ad esempio quello essere la continuazione ideale dell’Impero Romano. In un momento storico come questo, dove la crisi dello Stato nazionale è palese, non è certo la creazione di uno Stato bonsai a risolvere questo problema, ma la scoperta di nuovi orizzonti. Ecco perché non bisogna sottovalutare il problema del referendum: la gente lo ha preso come un altro segnale di protesta pacifica contro questo stato. Non Stato-entità, ma Stato-apparati, cioè quelle associazioni, associazioni di categoria, partiti che hanno cristallizzato la politica italiana negli anni e col tempo si sono personificate con le istituzioni; a tal proposito vorrei ricordare la bossiana campagna elettorale del 1996 contro Roma-Polo e Roma-Ulivo e la grillina “vera opposizione” dei giorni nostri. Se sommiamo la crisi, la sfiducia nelle ancore e il localismo antistatalista (unica cultura politica presente in Veneto dai tempi di Napoleone, intesa come fiducia nel parastato e non nelle istituzioni) ecco che capiamo il mal di pancia del nordest italiano. Analizzando anche la situazione attuale, dove la burocrazia impedisce di stare ai tempi dettati dalla globalizzazione, intuiamo che l’esigenza di autonomia e autogoverno è un obbiettivo concreto, ma non deve essere questa la strada da percorrere. Per trovare nuove soluzioni dobbiamo guardare all’Europa, alle sue caratteristiche storiche e alla sua architettura istituzionale attuale. L’Europa è l’Europa delle Polis, delle Città-Stato che precedono la formazione dello Stato Nazionale, e il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) inizia in questo settennato a sostenere lo sviluppo delle aree metropolitane. Storia e attualità coincidono, è questo il momento per effettuare le trasformazioni radicali della nostra Patria: un Europa federale a tre sovranità (popolo, Polis e Stati europei) risponderebbe alle esigenze di autonomia e autogoverno, ma per fare questo dovremmo immaginare la nostra amata (e martoriata) Italia come Stato federato all’Europa. Le regioni, fonte di spreco e burocrazia, dovrebbero essere eliminate, come le provincie, per lasciare spazio alle città metropolitane e alle aree rurali. Il comitato delle regioni europee si dovrebbe trasformare nella seconda camera dell’Europa; così le nostre Città conterebbero sia a Roma che a Bruxelles. La destra in Italia ha contribuito alla formazione della coscienza nazionale, a “fare gli italiani”, ora deve essere il motore della creazione della nuova Europa. Così quell’urlo “Europa, nazione. Rivoluzione” fatto dai nostri padri non saranno parole gettate al vento.

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