mercoledì 15 ottobre 2014

L'Italia merita un centrodestra moderno. Intervista a Gianfranco Fini

di Giuseppe Farese
Gianfranco Fini è tornato, dopo una assenza dalla scena pubblica che durava delle elezioni politiche del febbraio 2013. Esclude categoricamente, Fini, l’ipotesi di fondare un partito e ricandidarsi, piuttosto intende ricominciare a far politica all’interno della “polis” nel tentativo di ridare fiato a quella destra repubblicana che nella società italiana gode ancora di largo consenso. Nasce in tale direzione l’associazione Liberadestra, pensatoio voluto dall’ex presidente della Camera per veicolare idee e progetti sulla destra del futuro. La sua ultima fatica editoriale, “Il Ventennio”(Rizzoli,2013), è l’occasione per un’intervista a tutto campo sulla destra, sull’attualità politica e sui temi che, inevitabilmente, formeranno l’agenda di governo per i prossimi anni. Incontro Gianfranco Fini a Roma, nel suo studio in Piazza del Parlamento. E’ in buona forma e tra le dita stringe l’immancabile sigaretta. Presidente Fini lei nel suo libro ricorda che in occasione delle elezioni del 2013 vi fu un difetto di riconoscimento da parte dell’elettorato di Fli rispetto all’alleanza con Monti e Udc, giudicata troppo orientata al centro. Al di la di questo, che cosa altro non ha funzionato nell’esperienza di Futuro e Libertà? Direi che non hanno funzionato tante cose. In primo luogo ciò che ricordava lei nella domanda, unitamente all’impressione, da parte degli elettori, che il terzo Polo sarebbe stato ineluttabilmente destinato ad una successiva alleanza con il Pd. Tanti elettori, prima delle elezioni, mi confidavano di comprendere le ragioni della rottura con Berlusconi ma di non capire l’abbraccio post-elettorale che veniva paventato con il Pd di Bersani. A ciò si aggiunga l’errore di Monti nel non formare una lista unica anche alla Camera: su quest’ultimo aspetto pesò l’opposizione del gruppo di Montezemolo che riteneva, Fini e Casini, e i rispettivi partiti, Fli e Udc, rappresentanti della vecchia politica. Un altro errore fu certamente la mancata manifestazione unitaria del terzo polo in campagna elettorale, cosa che veicolò un messaggio di scarsa coesione all’interno dell’alleanza. Infine, nel programma non vi era alcun riferimento a quell’idea di destra che avevamo cercato di definire nel corso degli anni. Tutto queste cose, messe insieme, spiegano le ragioni del fallimento elettorale e politico dell’esperienza di Futuro e Libertà. Nel periodo in cui ha guidato Fli, lei ha più volte ricordato che era necessario superare le categorie politiche del novecento mostrando maggiore attenzione ai contenuti piuttosto che ai contenitori. Destra e sinistra sono categorie obsolete o vanno riempite di nuovi contenuti? Sicuramente riempite di nuovi contenuti. Rimango convinto, infatti, che il sistema dell’alternanza vada preservato in una logica strettamente bipolare. Possiamo chiamare i due sfidanti destra e sinistra, conservatori e progressisti oppure centro-destra e centro-sinistra, ma il problema non è di definizioni, o peggio ancora di etichette, bensì di contenuti. In questo senso la destra non deve mostrarsi pigra, ripetendo stancamente litanie e paradigmi programmatici appartenenti al passato: piuttosto ha il compito di sfidare i tempi nuovi e dar luogo a nuove sintesi e contaminazioni. E allora non mi scandalizza se proprio da destra, ad esempio, si possa arrivare a definire una proposta per l’integrazione dello straniero nel tessuto nazionale. La mia idea rimane quella di uno ius soli temperato o meglio ancora ius culturae, in cui la cittadinanza, oltre che alla nascita sul territorio italiano, sia legata ad un primo ciclo di studi scolastici che si completa ad undici anni. Un filone editoriale, inaugurato da Antonio Polito con il suo libro “In fondo a destra”, si è interrogato, negli ultimi tempi, sulle cause dell’assenza di una destra liberale e democratica in Italia nel dopoguerra. Secondo lei quali sono stati i motivi che ne hanno impedito la nascita fino al 1995, data in cui ha poi visto la luce An? Credo che le motivazioni vadano rintracciate in ragioni storiche molto profonde, d’altronde ogni politica nazionale è figlia della storia del proprio Paese. Se torniamo al 1861, anno dell’unificazione, riscontriamo la prima anomalia che in qualche modo si lega al suo quesito. Tra gli italiani il senso dello Stato dopo l’Unità non è certo forte e paragonabile a quello francese, dove il sentimento nazionale è già ben radicato dai tempi di Carlo Magno. Ancora, nel dopoguerra in Italia la parola destra è sinonimo di neofascismo, mentre in Francia richiama l’esperienza gollista. In Spagna, per farle un altro esempio, Franco muore nel suo letto ed il suo delfino, Suarez, accompagna il Paese verso la democrazia. Non dimentichiamo,poi, che l’Italia del dopoguerra vede crescere, al suo interno, il più grande partito comunista dell’occidente e diviene, al contempo, cerniera rispetto ai paesi dell’Europa comunista. Questo spiega il perché della presenza, nel nostro Paese, di un grande partito di ispirazione cattolica che era considerato davvero il baluardo contro l’avvento del pericolo comunista. All’interno della Dc, partito comunque plurale, è però innegabile che confluissero tanti voti di destra. Infine, c’è da ricordare che il Msi si considerava a tutti gli effetti erede della Repubblica sociale italiana. Tutte queste ragioni credo che delineino bene i motivi dell’inesistenza di un partito di destra liberale e democratica nell’Italia repubblicana. Da più parti la destra italiana è stata accusata di incapacità di elaborazione culturale e programmatica. Anche lei nel libro ricorda come la destra, seppur a lungo al governo a livello nazionale e locale, sia stata incapace di veicolare nella società un nucleo di principi e valori intorno ai quali raccogliere consenso: acuendo, in tal modo, la distanza tra “destra di governo” e “destra al governo”. Da dove nasce, secondo lei, questa difficoltà nel promuovere il dibattito programmatico? Credo che sia ingeneroso parlare di incapacità di elaborazione culturale della destra nel suo complesso. Ci sono stati certamente tanti uomini e donne che a destra sono stati in grado di elaborare strategie ed in qualche modo di anticipare i tempi. C’è da dire però che la classe politica della destra, arrivata al potere, non ha mostrato cultura di governo dimenticando che quest’ultima si forma e si rafforza quando si è all’opposizione. E per cultura di governo intendo la capacità di approfondire, guardare al futuro con lungimiranza e non essere legati alle situazioni contingenti. Se vi sono stati deficit di tal tipo nella classe dirigente della destra, chi come il sottoscritto l’ha diretta per tanti anni, non può naturalmente sottrarsi alle proprie responsabilità. Ma mi permetta di ricordare che in tutte le occasioni in cui qualche dirigente, penso ad esempio al professor Legitimo, cercava di far capire ai più giovani la necessità di rafforzarsi culturalmente ed idealmente, qualche colonnello del partito si affrettava a ricordare che con i professori non si raccolgono voti. Si parla tanto, in politica e nella società italiana, di ricambio generazionale senza però valutare le difficoltà che i giovani incontrano nell’accedere al mondo del lavoro. Lei preferisce, invece, parlare di patto generazionale, accordo attraverso il quale un piccolo sacrificio economico dei padri, al momento del pensionamento, consenta ai figli un più rapido inserimento lavorativo. Quali proposte,allora, possono partire da destra per favorire l’occupazione giovanile? Credo che sul tema non esista una ricetta univoca. Si tratta di un problema drammaticamente complesso che afferisce ai ritardi del nostro Paese in termini di assetto industriale e mancata modernizzazione. In ogni caso, e procedendo per gradi, ritengo che alcuni nodi vadano affrontati. C’è da dire, in primo luogo, che oggi il lavoro presuppone competenza e specializzazione. Il primo punto fermo sta quindi nel valorizzare maggiormente la formazione restituendo alla scuola, oggi cenerentola del sistema formativo italiano, un ruolo centrale. Il secondo punto riguarda la flessibilità, laddove il totem del posto fisso come lo si intendeva una volta sembra oggi definitivamente decaduto. E’ vero che oggi la disoccupazione presenta cifre allarmanti, ma è altrettanto vero che quei ragazzi che mostrano versatilità nel cercare lavoro anche fuori dalla propria realtà riescono a trovare più velocemente un’occupazione. E poi, come ricordava anche lei nella domanda, c’è bisogno di un grande patto generazionale, in una stagione in cui la categoria meno garantita non è più, come era una volta, quella più anziana bensì quella più giovane che si appresta ad entrare nel mondo del lavoro. In questo senso credo che il passaggio dal welfare state al welfare opportunity, come pensano oltremanica, sia una delle grandi sfide culturali del presente. Nell’ultima fase in cui fu nel Pdl, lei cercò di immaginare una destra moderna in cui i diritti civili e i diritti degli immigrati non venissero più considerati un tabù. Perché ancora oggi a destra continuano ad esserci resistenze verso questi temi? Perché credo, senza paura di essere smentito, che ci sia un’ignoranza abissale sulla storia del nostro Paese che presenta, nel suo libro delle memorie, pagine di emigrazione che non possono essere dimenticate. Vede, il nostro è un Paese bizzarro, che si inorgoglisce se il nuovo sindaco di New York rivendica le sue origini italiane, ma finge di dimenticare che tra qualche anno avremo, a livelli medio alti della società italiana ,figli di immigrati tunisini, marocchini, egiziani. Si tratta, in definitiva, di ritrosie e paure dovute ad un ritardo culturale. Nel libro ricorda che accanto alla volontà di dar vita ad una destra moderna, non vi fu mai tradimento rispetto ai valori tradizionali della destra. In tal senso sottolinea l’istituzione della giornata del ricordo per le vittime delle foibe nel 2004, e nel 2002 la legge sulla droga che aboliva la distinzione tra droghe leggere e pesanti. In che modo altri temi storici della destra, penso ad esempio alla legalità, possono essere oggi declinati? Sulla legalità, che lei cita, mi sembra ancor oggi un paradosso che la stessa debba essere considerata un valore solo destra. La legalità deve essere un principio valido per tutti, anche della sinistra, altrimenti rischiamo venga meno lo stesso patto fondativo dello Stato. Per quanto riguarda i temi tradizionali, essi devono essere la cornice all’interno della quale si svolge la politica complessiva della destra. C’è bisogno però che questi vengano vivificati e non mummificati, vincendo al tempo stesso incomprensibili ritrosie. Le porto un esempio al riguardo: nella società odierna che non è più quella fordista, e in cui il tempo libero dei cittadini aumenta non solo a causa della disoccupazione, non capisco perché non si possano affrontare anche da destra tutte le tematiche afferenti alla qualità della vita, quali l’espansione urbanistica,la pianificazione dello sviluppo cittadino, i diritti del consumatore, la qualità ambientale. Si continua, in maniera miope, a far si che questi argomenti rimangano appannaggio esclusivo della sinistra. Quale è il suo auspicio in termini di riforma della legge elettorale, di cui proprio in questi giorni si torna a parlare? Senza addentrarmi nei tecnicismi, mi auguro che venga fuori una riforma che garantisca il sistema dell’alternanza e che mantenga in vita il sistema bipolare. E che, nel tempo, alla stessa si possa affiancare una complessiva riforma dello Stato in senso presidenziale. D’altronde è sotto gli occhi di tutti che siamo già in una Repubblica semi-presidenziale di fatto: si tratta, allora, di passare da una situazione di fatto ad una di diritto. Il panorama nel centro-destra attuale è molto magmatico e presenta una forte disarticolazione. Da una parte il ritorno a Fi e il tentativo di rimetter in piedi An, dall’altra la novità rappresentata dal Ncd di Alfano. Dove può trovare spazio, in questo quadro politico, la destra repubblicana che lei immagina? Il consenso e lo spazio per una destra repubblicana credo sia all’interno della società, anche se per qualche tempo temo che non possa trovare sbocco in termini partitici. Vede, per quanto Berlusconi possa essere considerato alla fine della sua parabola politica, nel momento stesso in cu ipotizza una successione dinastica all’interno del partito non fa altro che ribadire che il berlusconismo non è affatto finito. Il problema,allora, non è più Silvio Berlusconi in quanto tale, bensì il suo modo di intendere l’agire politico. E per berlusconismo io intendo il suo rifiuto di immaginare una formazione di centro destra in cui possa albergare il pluralismo delle posizioni politiche, che non significa affatto anarchia ma normale dialettica all’interno di un partito democraticamente strutturato. Per quanto riguarda la disarticolazione nel campo del centro-destra, cui lei fa riferimento nella domanda, sarà importante capire quale sarà la nuova legge elettorale. Se è vero,infatti, che favorirà il bipolarismo e l’alternanza, scongiurando il ritorno all’eccessiva frammentazione, a destra l’alleanza con Forza Italia diverrà inevitabile per tutti. E allora ciò che politicamente è uscito dalla porta finirà col rientrare dalla finestra… Lei nel libro ricorda che,nel 1993, la destra non fu sdoganata da Berlusconi, bensì legittimata dagli elettori. Ricorda anche di essersi chiesto più volte, a posteriori, come la destra legalitaria avesse potuto convivere con personaggi e atteggiamenti dell’ambiente berlusconiano. Oggi, a distanza di vent’anni, ritiene ancora valide le ragioni di quell’alleanza? Direi di si, perché è anche vero, e questo l’ho scritto anche nel libro, che Berlusconi e Forza Italia sono molto mutati rispetto alle intenzioni iniziali. Non dimentichiamo che in una prima fase Berlusconi porta in politica e in Parlamento figure di primissima qualità: penso alla stagione dei professori e in particolare a Lucio Colletti, a Saverio Vertone e a Marcello Pera. Poi purtroppo, nel tempo, siamo passati dai professori a personaggi sui quali, per carità di patria, preferisco tacere… Fonte: http://www.angeloromano.it/confini/

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