di Elisa Mauro
Facciamo un passo indietro lungo due anni. Il 17 febbraio del 2012 la legge n.9, meglio nota come svuota-carceri, tagliava il traguardo definitivo alla Camera con 385 voti a favore, 105 contrari e 26 astenuti. Il provvedimento puntava a lenire superficialmente una tragica realtà riguardante il mondo carcerario, il suo sovraffollamento e i centinaia di casi di suicidio che scuotevano l’Europa e le sue cattedre.
Inizialmente furono moniti e paternali. Poi si passò, grazie alla Corte di Strasburgo, ai fatti: il danno provocato ai detenuti costretti a convivere in celle minime reca un’ammenda di 100mila euro che l’Italia è costretta a pagare entro il termine perentorio di maggio. Sì, perché se l’Italia è in stallo da oltre due anni ( e sotto svariati aspetti), l’Europa macina, va avanti e soprattutto non dimentica ciò che semina. Questo ormai lo avremmo dovuto imparare come l’Ave Maria. E invece, tentiamo il salto in alto senza l’asta né protezioni. Ci prova allora il ministro Andrea Orlando a parlare davanti al Consiglio d’Europa, al suo segretario Thorbjorn Jaglind, facendo leva sull’aspetto “qualità” delle nostre carceri, più che sulla quantità dei nostri carcerati. Come a dire, ora vi insegno a guardare il dito, e non la luna. E non è detto che non ci sia riuscito, ma fermarsi a quel punto sarebbe stato saggio. Invece il Guardasigilli Orlando continua e spiega che la forbice tra il numero dei detenuti e i posti disponibili si è dimezzato. Ma è difficile non credere il contrario. E infatti, se nel 2013 i detenuti erano oltre 65mila e oggi 60mila, non sarebbe il caso di parlare più matematicamente di una lieve decurtazione? Se ancora nel 2012 i detenuti in eccesso erano 21 mila e oggi 10mila, com’è possibile che sia dimezzato il rapporto tra detenuti e posti disponibili, e non semplicemente il mero numero relativo alla sovrabbondanza? Sappiamo inoltre che la legge Severino ha difatti influito tantissimo sul fenomeno delle porte girevoli, cioè l’entrata-uscita dei detenuti in carcere nell’arco di tre-cinque giorni, della convalida dell’arresto e il dimezzamento – questa volta sì – dei tempi previsti che passavano da 96 a 48 ore. Ma prevedeva soprattutto una integrazione delle risorse finanziarie dedicate al sistema detentivo, oltre che sanitario, pari a 57 milioni di euro per l’adeguamento e il potenziamento di strutture e infrastrutture a regime di reclusione. Se ad oggi l’Europa non riscontra miglioramenti, e nemmeno noi, cosa ne è stato di quelle risorse? Come è stato impiegato il denaro pubblico a favore di una vita carceraria migliore di Caino?
E anziché parlare di numeri e statistiche, non sarebbe stato accorto da parte nostra recare al Consiglio d’Europa qualcuno che conoscesse più a fondo la questione delle carceri, l’inadeguatezza della vita di diritto che è dovuta perfino a chi sbaglia, del perché ancora restano amnistia e indulto gli unici strumenti in grado di scrostare ben poca cosa dal tessuto carcerario in cui versano esseri umani che devono essere prima di tutto riabilitati, e non mortificati o indotti al suicidio? I problemi fisiologici che causano la crisi della giustizia penale, fosse anche per questi provvedimenti tappabuchi, se curati con amnistia e indulto non farebbero altro che lenire apparentemente un male che attanaglia nel profondo una struttura ormai lesa nell’integrità e nel rispetto dei principi.
La giustificazione etica e logica su cui poggia l’art.27 della nostra Carta non può prescindere dalle specifiche esigenze risocializzative e specialpreventive del condannato. Questo per dire, anche alla suprema Corte di Strasburgo, che pagare un condannato per il torto subìto non lo presenterà alla società come individuo ri-equilibrato, ri-educato o ristabilito. L’Individuo, ex detenuto, si troverà un gruzzoletto in più e, poiché nessuno gli avrà insegnato la lezione, molto probabilmente continuerà a delinquere. E come nel peggior gioco d’azzardo la sua probabilità di riscatto umano sarà pari allo 0,0001 per cento, mentre la nostra rimarrà sempre pari a zero.
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