mercoledì 15 ottobre 2014

Quell'applauso sconcertante

di Elisa Mauro
Una sera del 25 settembre 2005 alcuni ragazzi diciottenni di Ferrara decidono di trascorrere la serata in un locale di Bologna. Le occasioni per fare altro sono poche per quelle generazioni, anche nel 2005. Il divertimento è una cosa che ha sempre caratterizzato quell’età e non è difficile immaginare che ambienti ricreativi e formativi siano praticamente inesistenti. Basta la scuola, la famiglia a renderci edotti, ma gli amici servono a sedare le distrazioni e a legittimare (questa la forza di un branco) scelte che da grandi, se si arriva ad esserlo, sono quantomeno criticabili per gli effetti che arrecano. Federico Aldronvandi, quella sera, beve un po’ e assume sostanze stupefacenti, perché il branco ti rende più forte, più sicuro, alle volte, uno scudo per gli altri. Nel ritornare a casa, da solo, una pattuglia di polizia ferma il giovane, lo immobilizza, e mentre la colluttazione si fa violenta, il giovane prono s’inchina, sanguina, vomita e muore. Dal 2005 la magistratura, grazie alla determinazione dei genitori di Federico di fare chiarezza su una storia nebulosa che ha dell’incredibile (gli agenti diranno che la morte del ragazzo è stata effetto delle sostanze stupefacenti assunte e che la colluttazione è avvenuta a seguito delle violenze protratte dal ragazzo disarmato contro quattro poliziotti armati), fa luce su aspetti che sembravano dapprima incastrare le scelte compiute dal ragazzo, dalla sua età, dal modo in cui la società gli ha insegnato il divertimento, a distrarsi. Ma per tutti ormai quella luce acceca la realtà e ci fa vedere scene di massacro, di sopraffazione umana e di violenza inaudita che avremmo voluto non vedere, non vivere mai. La morte di Federico Aldrovandi (senza dimenticare quelle di Rasman e Cucchi) è omicidio che qualcuno ha commesso consapevolmente, determinato anche dalla forza che un gruppo ha nei confronti di chi è uno, solo e, in troppi casi, indifeso. Sono morti che sconvolgono la coscienza di un Paese e di uno Stato che ha bisogno di sicurezza e di sentirsi protetto, non terrorizzato, da chi dovrebbe contribuire alla sua tutela. I lunghi applausi perpetuati nei confronti degli agenti condannati, durante il congresso nazionale del Sap (sindacato di Polizia), alla presenza anche di La Russa, non solo fanno venire la nausea (dice bene la madre di Federico) ma mostrano chiaramente come un certo cameratismo sia vivo, florido e vegeto. Come individui che dovrebbero difendere le intercapedini in cui viviamo dalla delinquenza vera, dalla mafia, dalla malavita organizzata, forti del ruolo che assumono e che qualcuno gli ha assegnato, si sentono invincibili nei confronti di chi forte non lo è, e non lo diventerà mai. Fa rabbrividire pensare che un giovane (un nostro figlio, un figlio che abbiamo educato con i nostri sistemi di socializzazione, che abbiamo formato attraverso le sue dirette esperienze senza spiegargli quanto bastarde fossero) sia umiliato di nuovo attraverso un applauso rivolto agli agenti condannati in via definitiva per omicidio colposo e reintegrati negli amministrativi della Polizia di Stato. Un branco fa sentire più forti e mette in una condizione di estrema sicurezza: è difesa reciproca, copertura delle malefatte, intesa a occhi chiusi, coazione a rendersi omologhi, uguali, membri di una famiglia che è avulsa dal resto e che è dentro solo a se stessa. Il sindacato della polizia potrebbe tacere di fronte alle sentenze, potrebbe non parlare di vittime all’interno del corpo di polizia in questo caso, potrebbe chinare la testa per chiudersi in preghiera di fronte alla morte di un figlio che appartiene alla loro famiglia. Perché la famiglia delle forze di polizia, che nella maggior parte dei casi egregiamente lavorano alla sicurezza di questo Stato, non è, e non deve sentirsi mai, altro da noi, dalla società che contribuisce a rendere migliore. Mai altro dalla nostra famiglia e, quindi, da quella di Aldrovandi.

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