mercoledì 15 ottobre 2014

Il triste abbandono del lavoratore nei centri per l’impiego

di Redazione
Chi è entrato ultimamente in uno dei 553 centri per l’impiego italiani sa di cosa parliamo. Con molta probabilità avrà visto uno scenario di questo genere: facce tese e contrite, centinaia di disoccupati o inoccupati, tutti accomunati dalla stessa condizione che umilia il principio alla base della loro dignità italiana, il diritto per antonomasia: il lavoro. Sebbene sia facile ormai nascondere le rughe, quelle striature che inaspriscono le espressioni nascondono un’amara domanda, che, nel silenzio, non è difficile ascoltare: «Dove sei, Stato?». In Italia ogni CpI rappresenta – o, almeno, dovrebbe - il luogo privilegiato della pubblica amministrazione per gestire il mercato del lavoro a livello regionale e locale, modificando dal 1997, in parte o integralmente, i vecchi uffici di collocamento che in molti casi si erano dimostrati favorevoli intermediari tra candidati e società private, operando oggi, invece, esclusivamente in funzione degli enti previdenziali. Entrandovi, occorre prendere un numero, aspettare il proprio turno, rispondere a tre domande poste da uno dei sedici impiegati, in media 1 operatore per 226 disoccupati (in Gran Bretagna il rapporto è di 1 operatore ogni 24, in Francia di 1 a 70 e in Germania di 1 a 49), e aspettare che la condizione di tragedia nominale sia scritta nero su bianco e, di rimando, pronta per essere trasferita all’Inps. I CpI sono così costretti ad una inattività cronica, non essendo in grado ormai di far uscire né di far entrare nuova forza lavoro, ostruendo il passaggio nei canali professionali alle nuove generazioni, incidendo, inoltre, sul deterioramento delle capacità singole e collettive e, infine, tradendo la cultura che li ha fatti nascere: collocare i lavoratori, creare iniziative volte a incrementare il lavoro femminile, programmare il mercato del lavoro a vantaggio di soggetti disabili o svantaggiati, promuovere tirocini e corsi formativi gratuiti, poiché in uno stato di evidente inattività, e incrementare così il bagaglio tecnico e specializzato. E, invece, niente. Nella “solita” Svezia il disoccupato percepisce un’indennità. Trascorsi tre mesi, lo Stato bussa alla sua porta chiedendo se ha trovato un lavoro, se lo sta cercando e in che modo. Nel frattempo, però, il lavoratore, che non è mai abbandonato a se stesso, ha già ottenuto una o più proposte d’incarico dal centro di collocamento pubblico (il cui personale è altamente qualificato), che, se non in linea con il suo percorso formativo, ha il diritto sacrosanto di non accettare, ad una condizione: percepire un indennizzo di disoccupazione inferiore. Trascorsi altri tre mesi, lo Stato domanda nuovamente a che punto il lavoratore è della ricerca; se non è accaduto nulla, il cittadino è posto di fronte ad una nuova offerta di lavoro. Ora, per non vedersi dimezzare, o addirittura sopprimere, la sua “pensione”, il cittadino sarà portato ad accettare quell’offerta, perché contemporaneamente non gli sarà sbarrata l’opportunità di cercare un impiego in linea con il suo investimento formativo, mentre opera una mansione, di certo, ben retribuita. Se, invece, un nostro centro per l’impiego, oltre a regalare momenti di sconforto civico e a pesare sul carico della spesa pubblica, essendo poi surclassato per disposizione da agenzie interinali e private (che in caso di successo trattengono dallo stipendio del lavoratore il 15-20% del totale), cosa lo teniamo a fare? O più esattamente: a chi conviene tenerlo?

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