giovedì 23 ottobre 2014

Terrorismo in Canada, la "guerra senza limiti" dei nemici della democrazia



di Liberadestra


Abbiamo dunque  scoperto che anche nel  lontano e tranquillo Canada opera una "fabbrica di estremisti". L'attacco al Parlamento da parte di un canadese convertito all'islam  è un evento che lascia sgomenti e che produce insicurezza al di là del, pur gravissimo,  fatto in sé. Forse emergerà o forse no che l'attentatore era collegato a una centrale terroristica. Ma anche l'ipotesi del gesto isolato non è meno inquietante di quella dell'attacco pianificato sulla base di una atroce strategia del terrore. I "cani sciolti" del Jihad sono un fenomeno diffuso da tempo e sono perfettamente in linea con il carattere nichilista del nuovo radicalismo terrorista. Non è d'altronde azzardato immaginare che l'orrore mediatico diffuso dai video dell'Isis abbia svegliato l'istinto criminale dell'estremista di Ottawa.
Anche i "cani sciolti" del terrore sono parte del nuovo tipo di guerra globale che si è mostrata al mondo l'11 settembre del 2001. E' la guerra senza obiettivi strategici definiti se non quello di adulterare abitudini e sistemi di vita, di produrre insicurezza cronica, di suscitare reazioni incontrollate. E' una sorta di "psico-guerra" nella quale gli obiettivi possono essere ovunque. Possono essere un Parlamento, un'ambasciata, come anche una metropolitana oppure una pacifica manifestazione popolare, come accaduto nell'attentato, lo scorso anno, alla maratona di Boston.
Siamo entrati nell'epoca delle "guerra senza limiti", come dal titolo del celebre trattato di polemologia di Qiao Liang e Wang Xiangsui. "La guerra senza limiti - ha scritto Fabio Mini nel saggio La guerra spiegata a... - si pone l'obiettivo di demolire la forza intellettuale di un avversario spingendolo oltre i limiti morali e mentali, costringendolo a compromettersi innanzi tutto sul piano etico". Le provocazioni contro Roma e contro l'Occidente dell'Isis non sono ad esempio "propaganda", ma parte integrante della "guerra".
E' un nemico nuovo e insidioso. "Le democrazie occidentali - paventa Massimo Gaggi sul Corriere della Sera - possono trovarsi davanti a un bivio: accettare un alto livello di vulnerabilità o agire come regimi polizieschi contro estremisti giudicati pericolosi pur senza reati". Se si arrivasse a un punto simile, l'Occidente democratico e liberale subirebbe una grave sconfitta. La nostra società non deve finire tra Scilla e Cariddi. La sicurezza deve rimanere parte integrante della democrazia, deve continuare a marciare con il suo stesso passo. Anche il  miglioramento della qualità della vita sociale può diventare una risorsa strategica contro il terrore. E fa riflettere il fatto che l'attentatore di Ottawa aveva precedenti per  droga.

martedì 21 ottobre 2014

Immigrazione e cittadinanza, Renzi “copia” Fini




di Liberadestra




Cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia dopo un primo ciclo di studi: un “fatto di civiltà”, afferma Matteo Renzi in queste ore dalle prime pagine dei quotidiani. La proposta, presentata come prodotto dell’ala renziana del Pd (“ne discutevamo da tempo”, afferma orgogliosamente Orfini) in realtà ha ben poco di originale.  Autore della proposta concreta del passaggio dallo ius sanguinis (cittadinanza del bambino è quella dei genitori, indipendentemente da dove nasce) allo ius soli (cittadinanza del bambino è quella del paese dove nasce) seppur “temperato” dal possesso di alcuni requisiti come aver completato un ciclo di studi, è stato Gianfranco Fini nel 2009. Una proposta presentata e discussa pubblicamente in più sedi, a partire dai lavori condotti dall'allora Fondazione Farefuturo presieduta da Fini con la Fondazione ItalianiEuropei di Massimo D’Alema. Una posizione d’avanguardia per l’universo culturale del centro destra di allora, che gridò pubblicamente allo scandalo, accusando Fini di essere diventato di sinistra. Gli stessi che oggi da un lato tacciono (forse perché al governo?) e dall’altro manifestano insieme alla Lega di Salvini al grido “Via gli immigrati dall’Italia”.  Apprendere che “solo” dopo cinque anni, il Governo  recupera idee e proposte politiche altrui, fa ben sperare per il cammino di crescita di un paese. E il fatto che ci  sia la convergenza di opposti schieramenti  proprio su un tema come questo, un paese serio deve considerarlo un segno di maturità e non un “inciucio”.

Però, caro Renzi, la prossima volta, almeno cita la fonte. 

Un pallido centrodestra asseconda Renzi pigliatutto



di Aldo Di Lello 


Uno strano attacco di accidia, una incomprensibile rassegnazione sembrano in questo momento attraversare il campo del centrodestra (o di quel che ne rimane). Dall'Ncd  alla Lega e a FdI, passando ovviamente per Forza Italia, non giungono segnali di riscossa. Inerti, confusi, minimalisti, tutti assistono senza colpo ferire al tentativo renziano di trasformare il Pd nel partito pigliatutto della politica italiana. L'idea del premier-segretario è quello di un partito a vocazione "maggioritaria", capace cioè di raccogliere consensi trasversali, sia in senso politico sia in senso sociale. "Il Pd - ha spiegato Renzi nel corso dell'ultima Direzione -  deve essere un partito che si allarga. Reichlin lo ha chiamato il partito della nazione. Deve contenere realtà diverse". Più che un "partito della nazione" (il quale dovrebbe partire da un grande progetto per l'Italia), quello di Renzi appare in verità un partito idrovora, sostenuto dall'affabulazione del leader e dal senso di emergenza diffuso nella nostra società.
Si può certo osservare che, quello renziano, potrebbe rivelarsi un sogno velleitario. E ciò per le contraddizioni che reca al suo interno, non ultima la corrente di dissenso che monta a sinistra, nel partito e tra la tradizionale base sociale del Pd. Il partito renziano potrebbe insomma fare la fine del rospo delle fiabe, che si gonfia a dismisura, per  poi esplodere, alla prima difficoltà.Ma non è questo il punto. Il punto è che il progetto renziano è oggi favorito dall'atteggiamento rinunciatario del centrodestra. Non risultano ad esempio  pervenute, al di là della scontata polemica  su questo o quel punto, proposte alternative e di ampio respiro alla legge di stabilità varata dal governo. E dire che gli argomenti  non mancherebbero, a partire dagli effetti potenzialmente nefasti del  (perverso) combinato disposto tra l'anticipo del Tfr in busta paga e la stangata fiscale sui fondi pensione. Al solo scopo di fare cassa e di appesantire (comunque leggermente e comunque con i soldi dei lavoratori) gli stipendi, il governo non esita a danneggiare le pensioni integrative, che rappresentano la speranza previdenziale per le giovani generazioni. E ciò dà la misura della scarsa visione strategica, della povera idea dell'Italia e del suo futuro, che il renzismo trionfante sta oggi dimostrando. Un centrodestra con cultura di governo annuncerebbe una grande battaglia su questo punto. Ma dove la pulsione alla resa da parte del cdx (in particolare di Forza Italia) diventa palese è nella vicenda della legge elettorale. Renzi intende passare dall'Italicum a un provvedimento fatto su misura per il suo Pd a "vocazione maggioritaria".  Il premio di maggioranza verrebbe infatti attribuito, non più alla coalizione bensì alla lista. Ebbene, se l'Ncd ha già dato il suo ok con Alfano, neanche FI sembra contraria. I capigruppo, Brunetta e Romani, hanno posto solo una questione di "metodo" , mentre dall'entourage di Berlusconi filtra una sostanziale approvazione. E' proprio vero, come dicevano gli antichi, che gli dèi accecano quelli che vogliono perdere. Perché consegnare in questo momento tale legge a Renzi , equivale a consegnargli di fatto, e chissà per quanto tempo ancora, le chiavi del Paese.E neanche la fragorosa "opposizione" della Lega  (partito che tutti i sondaggi designano in crescita) può impensierire Renzi. Anzi. Proprio la recente manifestazione anti-immigrati di Milano dimostra che l'obiettivo del Carroccio è quello della protesta sterile, che non si trasformerà mai in cultura di governo. Xenofobia e anti-Europa sono oggi il mix perfetto per rimanere in eterno all'opposizione. Così, per la gioia del leader Pd, assisteremo - come già peraltro stiamo assistendo - all'"epica" sfida tra Salvini e Grillo per conquistare il cuore dell'Italia più impaurita e rancorosa.Se non cambia qualcosa, se il centrodestra nel suo insieme (e la destra in particolare) non ritrovano il gusto di tornare a essere trainanti per l'Italia politica, la voglia di riconquistare i ceti perduti e gli elettori delusi, il desiderio di essere credibile forza di governo, se non accade tutto questo, il renzismo colorerà a lungo il nostro futuro. Chi non si rassegna a una simile prospettiva deve  dirlo oggi con chiarezza. E a voce alta. 

Ebola e il contagio della paura universale




di Elisa Mauro 



Anno 2014. Finisce una guerra, ne inizia un’altra. Le zanzare non smettono di pungere. Come cinquant’anni fa, anzi – se possibile – è ancora peggio. Anno 2014. Persa la battaglia contro la fame di lavoro e di società civile, si comincia a intravedere un altro campo di battaglia che appare ampio, lungo, oltre che impervio. Non ne sentivamo il bisogno. Onestamente. Anno 2014. E come l’anno precedente l’Occidente trema. Per qualcosa che si conosceva anche cinquanta anni fa, ma che non destava così prepotente l’attenzione/disattenzione dei potenti e, quindi, la nostra. Mentre ancora Sars e Aviaria vivono latenti da qualche parte del pianeta, l’odore di un’altra terribile minaccia comincia a bruciare nelle nari. Questa provoca febbre alta, forti dolori addominali e muscolari, spossatezza e letali emorragie. Provoca la contaminazione incessante, il passaparola virale, il contagio della paura mondiale. La sua infezione è velocissima e la sua virulenza troppo alta per essere sottovalutata. È Ebola, il virus che dall’inizio di questo faticoso 2014 sta facendo tremare l’Africa occidentale, e piano piano l’Occidente e il suo notorio savoir-fair. Niente di personale, fa sapere il virus. Ebola aveva solo voglia di far concentrare l’attenzione dei potenti su qualcosa di nuovo, di diverso. Non che in Africa non si muoia sempre per qualcosa, vedi Aids e altre malattie infettive: questo lo sapevamo tutti e sapevamo anche che per difendere la popolazione pochi passi avanti sono stati fatti. Ma “L’ebola – fa sapere Josè Manuel Barroso dal vertice Asem a Milano - può diventare una catastrofe umanitaria”. Non un problema circoscritto all’origine, dunque, ma una sorta di ferrovecchio che, senza farsi vedere, in una notte, in una manciata di ore, ha legato mani e piedi agli altri continenti, escluso quello nero, che non è nuovo a queste terribili prigionie. I governi centrali e locali stanno sottovalutando il problema. No, altri dicono che in realtà lo stanno sopravvalutando. Fatto sta che da qualsiasi punto di vista si osservi, questa nuova ondata di paura o di veleni fa sudare l’Occidente fino a rendergli le forze inesistenti, neanche godesse normalmente di ottima salute. E quindi Barack Obama dall’America ci tiene a costituire al più presto un tavolo programmatico di supermentati che vengano messi nella condizione di risolvere quanto prima questo increscioso ostacolo o, al più, anzi al meno, ridurre le conseguenze fin qui già maturate dal contagio. E mentre l’Oms dichiara il Senegal ufficialmente guarito dal rischio del contagio nazionale, insieme alla Nigeria, che a breve terminerà il periodo di osservazione del virus su ulteriori casi, resta da tener presente che il vaccino per Ebola non sarà pronto per un suo utilizzo su vasta scala. Già. Una cosa voluta, sperata o improvvisata? In qualsiasi modo vogliamo far tacere o far parlare il nostro diavoletto cospiratore, è l’anno 2014 e anche oggi continuiamo a temere il rischio di un contagio universale.


lunedì 20 ottobre 2014

Assemblea regionale Liberadestra





 Comunicato stampa e invito




Come annunciato in occasione dell’Assemblea nazionale svoltasi al palazzo dei Congressi di Roma lo scorso 28 giugno, il Presidente Gianfranco Fini si appresta ad intraprendere un “giro d’Italia” partecipando alle assemblee di Liberadestra autoconvocatesi nelle varie Regioni. Il primo appuntamento di questo “tour” tra le realtà locali è previsto a Bari, sabato 25 p.v. alle ore 10 presso il Multicinema Galleria. Saranno presenti numerosi esponenti della Destra pugliese.



Per info e accrediti:

Dott. Francesco Capozza
Portavoce presidente Gianfranco Fini
Cell. 3397991754



Russia-Ucraina, l'esile filo di un dialogo possibile




di Cristofaro Sola



Il sipario è calato sull’Asia Europe Meeting. Il vertice, monopolizzato dalla crisi ucraina, non è stato un successo. Al tavolo negoziale si sono fronteggiate almeno quattro posizioni. La prima ha riguardato il presidente dell’Ucraina. Petro Poroshenko puntava a chiudere l’accordo con Mosca per le forniture di gas. Il contenzioso verte sull’ammontare del debito accumulato negli anni dall’Ucraina nei confronti della compagnia petrolifera russa Gazprom. Poroshenko sa di non potere onorare l’intera somma dovuta –5,5 miliardi$- senza l’intervento di capitali freschi provenienti da fonti occidentali. Tuttavia, concludere il negoziato nell’ambito del vertice Asem avrebbe consentito al leader ucraino di terminare la campagna elettorale in corso per il rinnovo anticipato del parlamento nazionale - il Verchovna Rada- con maggiori chances di successo. Poroshenko ha offerto il consolidamento della legge sull’autonomia speciale, concessa attualmente in via temporanea, alle regioni separatiste del Donbass. Inoltre avrebbe confermato l’adesione al  processo di pace delineato nei nove punti del “memorandum di Minsk”.
L’Ucraina non potrebbe reggere oltre il peso finanziario di una guerra civile prolungata, anche se a bassa intensità. Un recente studio del Ce.S.I. rileva che finora l’OAT, cioè l’Operazione Anti Terrorismo condotta dalle forze armate ucraine contro i separatisti delle regioni del Donbass, sia costata 8 miliardi di dollari, con una previsione di raddoppio dei costi nei prossimi mesi. Non solo. La crisi ha determinato un crollo delle esportazioni verso la Russia stimato in 2,5miliardi $, parzialmente compensati dalla crescita dell’1,2% delle esportazioni verso la Ue. Il dato è molto negativo se si considera che, per Kiev, la Russia resta il primo mercato d’esportazione. In caso di rottura delle relazioni commerciali le perdite per il sistema produttivo ucraino sono stimate, su base di calcolo decennale, in 200 miliardi di dollari. L’Ucraina ha un debito di breve-medio periodo di 30miliardi $, coperto solo in parte dalle riserve valutarie. Ne consegue che il rischio di default per il paese sia molto elevato. E non è detto che la Ue, alle prese con i problemi dei suoi Stati membri, possa decidere di pompare risorse illimitate nel pozzo ucraino. Poroshenko deve fare i conti con la realtà. La produzione industriale del suo paese è calata del 12%, il rapporto deficit/PIL potrebbe arrivare nel 2014 al record negativo del 6,4%. Poroshenko proviene dalla classe degli oligarchi e li rappresenta. Questi ultimi non hanno troppa voglia di bruciare i ponti con il tradizionale partner russo. D’altro canto, le due economie continuano a essere complementari. Poroshenko ha ragione di temere che il prolungarsi della crisi possa ridare fiato agli spiriti ultranazionalisti. Gli estremisti sono pronti a soffiare sul fuoco dell’immiserimento complessivo della popolazione per spingere il paese verso la deriva violenta del nazionalismo anti-russo e, insieme, anti-occidentale. Per Poroshenko la partita sul gas resta il punto di snodo dell’intero negoziato. Comunque, sarebbe stato già soddisfacente tornare in patria e rassicurare i propri concittadini che non resteranno al freddo nei prossimi mesi.
I toni encomiastici sulle conclusioni del vertice non sono stati per nulla condivisi dalla cancelliera Merkel. La sua Germania continua a coltivare ambizioni diverse e non tutte condivise all’interno della Ue. Angela Merkel punta al doppio obiettivo. Da un lato integrare nella sfera d’influenza europea l’Ucraina per sfruttarne a costi convenienti le risorse minerarie delle regioni orientali e quelle idrocarburiche che giacciono nelle profondità del Mar d’Azov; dall’altro, ottenere il ridimensionamento politico-strategico del competitor russo. La credibilità di questa posizione è stata dimidiata dall’uso strumentale che è stato fatto del diritto del popolo ucraino all’integrità territoriale. La Germania, affiancata dai paesi russofobi dell’Europa di Nord-Est e con il sostegno di Londra e di Washington, sta usando argomentazioni nobili per coprire una guerra di interessi non sempre commendevoli. Forse la signora Merkel sperava di ottenere  maggiori risultati dalla strategia d’isolamento tentata ai danni della leadership moscovita. Le sue dichiarazioni e il suo volto scuro, nei giorni di Milano, raccontano il contrario.
Agli osservatori non è sfuggita invece una certa baldanza nei toni del presidente Vladimir Putin, protagonista del vertice Asem. Il leader russo è giunto in Italia con l’idea di consolidare lo status quo. Putin avrebbe voluto una presa d’atto della comunità internazionale sulla modifica degli assetti territoriali dell’Ucraina seguiti alla perdita della penisola di Crimea. Per questo obiettivo sarebbe stato pronto a dare il via libera a una soluzione del contenzioso finanziario molto vantaggiosa per Kiev. In alternativa, la delegazione russa avrebbe alzato il tiro proprio sulla questione del pagamento del debito. Com’è puntualmente accaduto. E’ di tutta evidenza che il capo del Cremlino abbia calcato la mano nel richiedere all’Occidente europeo che si facesse carico di onorare i pagamenti in luogo del debitore ucraino. Una mossa tattica per spingere i sostenitori europei di Kiev ad accettare la realtà. Mosca sarebbe ben lieta di abbonare buona parte dei debiti a Kiev in cambio di una legittimazione internazionale dell’annessione della Crimea alla Federazione russa. La minaccia, neanche troppo velata, di creare problemi sulle forniture a tutto l’ovest europeo con l’approssimarsi dell’inverno, avrebbe dovuto servire da strumento di pressione sugli altri player del negoziato per indurli ad allentare il regime delle sanzioni in atto che sta provocando fughe di capitali e d’investitori dal mercato russo. Così non è stato. In prospettiva, se Mosca non dovesse ricevere risposte convincenti dal fronte occidentale potrebbe deviare verso un congelamento del conflitto nelle regioni del Donbass sul modello di scenario già sperimentato in Transinistria, in Abkazia e in Ossezia del Sud.
La quarta aspirazione che ha preso posto al tavolo di Milano è stata rappresentata dall’Italia a nome di quei paesi del sud e del sud-est dell’Europa che la crisi ucraina la stanno subendo senza averne alcun beneficio. Probabilmente la delegazione italiana è stata quella che maggiormente si è spesa per un esito positivo del vertice. Matteo Renzi sentiva la pressione dei nostri produttori che hanno ricevuto danni significativi dall’escalation della guerra delle sanzioni. Per comprendere le dimensioni del problema basti ricordare che il volume dell’interscambio commerciale con la Russia ha traguardato, nel 2013, la quota di 39miliardi di euro. Se il vento non dovesse cambiare, l’export italiano subirà, nel biennio 2014-15, una contrazione di circa 2,4milardi di euro, al netto dei numeri negativi sui flussi turistici dalla Russia verso l’Italia e sugli investimenti di capitali russi nella nostra economia. E’ una prospettiva che il sistema produttivo italiano non può consentirsi in un momento di perdurante stagnazione interna. Vi è poi la partita delle forniture idrocarburiche. Il prodotto russo copre in complessivo il 45% del fabbisogno domestico. Per il momento il progetto d’implementazione del “corridoio sud” nel quadro della diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con la guerra civile libica alle porte, è poco più di un’utopia. Quindi, insistere con la politica del muro-contro-muro potrebbe, alla lunga, rivelarsi esiziale. Il conflitto intra-ucraino potrebbe causare una preoccupante frattura all’interno dell’Unione europea. Non sarebbe da escludere che l’atteggiamento da tenere verso la Russia divenga la causa d’innesco per la deflagrazione delle contraddizioni stratificatesi in seno alla comunità.
A Milano c’è stata una speranza di de-escalation che è andata delusa, ma non è morta. Il canale di dialogo, comunque, resta aperto. 

Ma Renzi non ha la visione della Nuova Repubblica





di Angelo Romano


Se a Matteo Renzi riuscirà di rottamare anche il Pd  - come sembra stia facendo - allora si sarà guadagnato un posto nella storia e la gratitudine imperitura di molti italiani.
Per uscire dall'agonia della cosiddetta Seconda Repubblica  occorre demolire i centri di resistenza al cambiamento che vi si oppongono. Tra questi, alcune forze politiche - come il PD - che hanno conservato una concezione egemonica, una supposta diversità morale ed un doppiopesismo, ereditati dal vecchio PCI, che mirano alla tutela di uno status quo che, nelle sue pieghe incancrenite, offre ampi spazi di manovra e grandi opportunità in termini di gestione del potere e di "manutenzione" del consenso.
In questo senso le capacità "rottamatorie" di Renzi possono essere utili all'Italia. Altro il discorso sulle capacità di costruire razionalmente e strategicamente le condizioni per l'avvento della Terza Repubblica. Capacità che, probabilmente, Renzi non ha, se si guarda al pasticcio della riforma del Senato, alla finta abolizione delle Province, all'orribile progetto di legge elettorale, al flop degli 80 euro sul rilancio dei consumi, all'inutile impuntatura sulla Mogherini alla guida di una inesistente politica estera europea, allo scialbo semestre di presidenza europea, alle immutate prospettive di decrescita economica e civile, all'assenza di una "visione" per l'Italia e per l'Europa.
I costruttori della Terza Repubblica, probabilmente, saranno altri da Renzi, il demolitore. Ciò perché,  il ritorno della politica, che finalmente e meritoriamente è riuscito ad incarnare pienamente, dai tempi di Tangentopoli, costituisce, paradossalmente il suo limite che non gli consentirà di metter mano alla revisione profonda della nostra Costituzione. E senza la riscrittura della Carta non potrà esserci nessuna  radicale riforma e nessuna Terza Repubblica all'orizzonte.
La politica agisce entro i margini fissati dalla Carta, figlia a sua volta di un atto politico fondante, ma la sua supponenza, spesso, non le fa intravedere tali limiti e l'impossibilità di operare concretamente i cambiamenti radicali di cui ci sarebbe disperato bisogno. Quanto è davvero efficacemente riformabile la giustizia, ad esempio, con le regole date?
Regole, si ricordi, scritte alla fine di un conflitto mondiale, dopo un'esperienza totalitaria, col condizionamento forte della volontà dei vincitori ed in un'epoca in cui il mondo si andava assettando per blocchi contrapposti e sull'equilibrio del terrore e neanche si intravedevano le rivoluzioni industriali e tecnologiche che ci sono state nei decenni successivi alla sua formulazione.
La riscrittura della Costituzione sarebbe un atto necessario, ma potrebbe mai la politica come la conosciamo, Renzi in primis, indire un'Assemblea Costituente negando con ciò se stessa?
Eppure la storia dei tanti fallimenti riformatori, le tante montagne che hanno partorito topolini, lo stesso fallimento in atto del falso "bipolarismo all'italiana", dovrebbero fornire una bussola, una direzione di marcia a qualunque vero riformatore.

Perché l'Is rappresenta un nemico mortale per l'Occidente (e non solo)




di Cristofaro Sola



I miliziani dell’Is, guidati da Abu Bakr Al–Baghadadi, sono alle porte della città siriana di Kobane, distante poche centinaia di metri dal confine con la Turchia. Ma sono anche a pochi chilometri da Baghdad. La coalizione guidata dagli Stati Uniti tenta di fermarli con i bombardamenti aerei ma non vi riesce. Perché? L’Is presenta profili strategici molto differenti da quelli delle altre organizzazioni del terrorismo jihadista. Due, in particolare, ne sono elementi caratterizzanti: la territorialità del progetto di Stato Islamico e la stratificazione dei target. L’Is ha cominciato una guerra di conquista territoriale in danno di quei Paesi del mondo arabo nati all’indomani della caduta del plurisecolare impero Ottomano. L’obiettivo dell’Is è la costruzione di uno Stato di musulmani “puri” che si estenda dall’Africa all’Asia. La presa progressiva di città e villaggi determina l’avvicendamento, nelle articolazioni degli apparati pubblici, delle vecchie burocrazie con referenti fidelizzati alla causa fondamentalista. La gestione amministrativa del welfare locale produce crescita del consenso sociale. Nel contempo, la commercializzazione diretta del petrolio, estratto nelle zone occupate, genera autosufficienza economica. Come sostiene Liisa Liimatainen su Limes, la guerra dell’Is ha forti assonanze con l’epopea dei jihadisti che nel 1744 diedero vita al primo regno dell’Arabia Saudita. In particolare, vi sono analogie significative che riguardano lo sviluppo organizzativo degli ikhwan (i fratelli). Quella appartenenza integrale, anche fisica, alla causa del Jihad configura un modello ideologico e comportamentale di intransigenza religiosa molto avvertito dalle giovani generazioni.
Il secondo aspetto che deve essere considerato riguarda la stratificazione del target. Is sta combattendo una guerra totale su livelli differenziati. Ne contiamo almeno tre. Il primo, quello mediaticamente più visibile attiene allo scontro di civiltà con l’Occidente. Il secondo livello, invece, assume come obiettivo la resa dei conti con gli sciiti. Il terzo livello del target è costituito dalla lotta interna alla galassia sunnita. Su questo ultimo aspetto occorre soffermarsi. Spesso si commette l’errore di pensare all’Islam come a un universo religioso monolitico e piuttosto statico. Non è così. La cifra identitaria si colloca proprio nel dinamismo delle sue molte declinazioni. Non esiste un solo Islam sunnita. Gli integralisti di Is sono sunniti wahhabiti. Essi si riconoscono nella figura storica di Muammad ibn Abd Al–Wahhab, vissuto nel XVIII secolo, co-fondatore del primo regno dell’Arabia Saudita e propugnatore degli insegnamenti della scuola coranica hanbalista, già praticati dal teologo siriano vissuto duecento anni prima, Ibn Taymiya, padre spirituale del salafismo. Tra le due correnti di pensiero vi è più di un’affinità. Si potrebbe asserire che salafismo e wahhabismo siano facce della stessa medaglia coniata all’interno della scuola Hanbalista. L’intransigenza morale e religiosa di questi movimenti che invocano un’osservanza rigorosa, non deviante, del Corano e degli hadith agisce da spinta motivazionale per trasferire il principio di guerra santa dal piano filosofico-spirituale a quello propriamente politico-militare. Tuttavia, le articolazioni interpretative religiose incrociano le contraddizioni sociali presenti nel mondo islamico. La lotta ingaggiata dall’Is attraversa il mondo arabo determinando una frattura tra popolo e classi dominanti. I filmati degli sgozzamenti di James Foley e degli altri ostaggi europei e americani sono indirizzati a galvanizzare le masse musulmane piuttosto che a spaventare l’opinione pubblica occidentale. A fronte della pretesa dell’Is di incarnare una visione di riscatto per i diseredati, le classi egemoni del mondo arabo hanno accettato di porsi sotto l’ombrello protettivo della coalizione per prevenire il rischio di contagio dalla diffusione di idee destabilizzanti degli equilibri sociali e religiosi faticosamente raggiunti. Lo scenario rappresentato spiega in parte l’oggettiva difficoltà degli alleati occidentali a muoversi sul campo con disinvoltura. L’Is è un male che non è debellabile per effetto di un vaccino universalmente efficace. Richiede risposte a molteplici livelli. L’opzione militare deve essere esperita fino in fondo. Dopo toccherà alla politica fare la propria parte superando, in nome della sicurezza globale, le resistenze e le astuzie dei troppi egoismi locali. Saranno in grado gli occidentali di troncare la testa al serpente evitando che le ramificazioni del suo corpo continuino a colpire? Saranno i player mediorientali capaci di giungere a un compromesso che assicuri, una volta per tutte, pace e stabilità all’intera regione? Le risposte non tarderanno a venire. Una cosa è certa: se i sanguinari combattenti dell’Is non verranno fermati in tempo, per l’Occidente saranno guai molto seri. Nel futuro prossimo potrebbe realizzarsi la tanto temuta saldatura tra le molte anime del fondamentalismo jihadista. Potrebbero accordarsi su una sostanziale suddivisione dei compiti: all’Is l’incombenza di continuare la battaglia in campo aperto, alle altre formazioni jihadiste l’onere di organizzare la strategia del terrore behind enemy lines - dietro le linee nemiche - cioè a casa nostra. Per questa ragione difendere oggi Kobane ha un senso che annulla qualsiasi incertezza.

La grande bellezza è a Matera



di Liberadestra




Siamo a Matera, tra i sassi immortalati dalle migliori pellicole e chiese rupestri dalla bellezza ancora incontaminata, che avvicinando i lobi riconosci la voce di Dio. Quella vera. Qui è tutto come si vede, nel modo in cui ognuno lo vuole ammirare. Bello, eppur semplice; umile, ma sentito. Qui, sul declivio a ridosso di un affossamento nei pressi del parco delle Murge, in mezzo ad abitacoli scavati nel terreno, gravine e abitazioni cavernicole, laure, grotte paleolitiche, in prossimità del Duomo, della Civita, del Piano medievale-rinascimentale (e troppo ancora che a dirlo manca il fiato), proprio qui c’è la prossima capitale delle cultura europea nel mondo.

Difficile trattenere le lacrime dalla commozione e dalla felicità. Per la bellezza riconosciuta, e ora premiata, e per il lavoro operoso compiuto dalla fondazione BASILICATA-MATERA 2019. Dallo scorso settembre, infatti, la fondazione ha spinto sul podio la sua Matera, il nostro Sud, grazie al lavoro assiduo compiuto su un dossier di 150 pagine contenenti principi fondamentali, sostenibilità, strategia di comunicazione, con un brand del tutto originale, un claim e 50 milioni di euro tra privati e pubblici a coronare l’iniziativa voluta dai giovani di Matera per i giovani italiani. La bellezza è protagonista, la ricchezza insita in questi luoghi, di questi tempi, la sua spinta reale. In mezzo a questo coro di gioia a cui sentiamo di unirci, manca però ancora un mea culpa, che sembra non essere monovoce, da parte di chi fa crollare pezzi del nostro patrimonio, dei ciechi che non vedranno mai in tutto questo il reale PIL del nostro Paese, la ricchezza che muove lavoro, mercato e specializzazioni. Il pretesto per poter dire un giorno, speriamo molto presto, ragazzi, bentornati a casa.

venerdì 17 ottobre 2014

Luci e ombre della rete, la riflessione dopo l'euforia



di Domenico Lofano


Mi metto offline cinque minuti, dieci al massimo. Giusto il tempo minimo per interrogarsi su quello che ci circonda, per chiederci se siamo effettivamente padroni di noi stessi, del nostro destino, della nostra vita. Di tempo, in realtà, ne servirebbe molto di più perché la riflessione da fare è piuttosto seria e merita attenzione. Ma, almeno questa è la percezione, non ne abbiamo molto: siamo eternamente connessi, pervasi dalle tecnologie, costantemente reperibili con scambi di email, sms e controllo sui social network.

Federico Rampini, nel suo libro “La rete padrona”, ci spinge proprio a far questo: interrogarci sui cambiamenti in atto, capire come si è trasformato il capitalismo e chi sono i nuovi, veri padroni. L'affermazione della rete rimane certo un nuovo e fondamentale strumento di democrazia, di informazione, di crescita civile, di comunicazione, uno strumento che abbatte barriere sia geografiche sia culturali. Ma, dopo gli anni della scoperta e dell'euforia, è venuto il momento della riflessione più matura e consapevole sulle criticità che i new media stanno dimostrando nella fase del loro consolidamento. Ed è superfluo avvertire che interrogarsi su tali criticità è la premessa necessaria per consentire alla rete di sviluppare tutte le sue grandi potenzialità di democrazia e di miglioramento della qualità della vita. Un interessante dibattito - di cui il libro di Rampini non è che una delle tante espressioni - si è sviluppato negli ultimi anni tra esperti e semplici utenti, un dibattito cui non può essere insensibile chiunque sia interessato alla qualità e al livello del processo di circolazione delle idee e delle informazioni.
E allora, senza farsi prendere da tecnofobie o strampalate volontà di ritorno al passato, non è vano chiedersi se per caso la rete non si è ormai impossessata, per molti aspetti, di noi: da strumento che doveva permetterci di impadronirci del nostro tempo, è lei invece a gestirlo? Con un semplice clic accediamo a tutto lo scibile umano, cosa senz’altro positiva ma che ci sta rendendo più superficiali, distratti e immersi in una marea di cose irrilevanti con conseguenze sulla nostra creatività, sempre più frustrata.

Facebook ha alterato il concetto di amicizia, con grandi vantaggi da un lato ma altrettanti elementi negativi dall’altro. Accediamo a tante informazioni, siamo in contatto col mondo ma al tempo stesso lasciamo infinite tracce su cosa pensiamo, dove stiamo, cosa facciamo e chi frequentiamo. Informazioni che i colossi della Rete, i nuovi padroni, gestiscono a fini commerciali se va bene, o peggio per controllarci e spiarci. Le grandi startup innovative come Google, Amazon, Facebook e Twitter, nate da spiriti libertari, sono diventati dei "mostri" del capitalismo, amati e corteggiati dalla Borsa. Siamo più efficienti ma i nostri salari non sono aumentati, anzi. Le uniche grandi ricchezze che si sono formate sono state proprio quelle dei grandi colossi della Rete. Apple e Google fanno beneficenza, ma compaiono entrambi tra i più grandi elusori fiscali al mondo e la prima ricorre allo sfruttamento di operai cinesi. Pensiamo di esser liberi ma l’algoritmo di ricerca di Google, che non è affatto neutro ma costruito in modo da far comparire ai primi posti società direttamente controllate da Mountain View o dispose a pagare pur di vendere prodotti, ci dovrebbe far riflettere. E la nuova guerra fredda è anche una lotta tra hacker. Il bilancio tra costi e benefici di questa trasformazione del capitalismo, di questo straordinario sviluppo delle tecnologie, per ora, resta positivo. Sta ad ognuno di noi però riflettere attentamente sui cambiamenti in corso, sullo sviluppo delle nuove tecnologie per imparare a difenderci e restare padroni del nostro destino.





giovedì 16 ottobre 2014

Campi: "L'assenza di una vera opposizione è l'incubo di ogni democrazia"



Pubblichiamo qui di seguito alcuni brani tratti dall'editoriale di Alessandro Campi, dal titolo "L'opposizione fantasma e i rischi per il sistema", pubblicato martedì 14 ottobre, su "Il Messaggero".

La qualità di una democrazia è data da molte cose. Le modalità attraverso le quali vengono selezionati i rappresentanti del popolo (per merito e dal basso o per cooptazione dall'alto?). La sua capacità a esprimere governi stabili ed efficienti. Il grado di partecipazione alla vita delle istituzioni garantito ai cittadini. Infine, l'esistenza di un'opposizione parlamentare che funga da stimolo al governo, che lo controlli nei suoi atti e che venga percepita dagli elettori come un'alternativa politicamente credibile.
In Italia, nell'era cosiddetta renziana, esiste un'opposizione politica, oltre quella sociale che per definizione si esprime fuori dalle istituzioni e che non sempre coincide con la prima? La domanda è di quelle che, negli ultimi tempi, ricorre con più frequenza. Si ha come l'impressione, infatti, che il governo attualmente in carica si muova in una sorta di vuoto: in molti lo contestano, ma nessuno è realmente in grado di contrastarlo o condizionarlo nelle sue scelte.
E' un esecutivo, come dice qualcuno, senza alternative, che in democrazia invece dovrebbero esistere sempre (...).
Sulla carta, in realtà, un'opposizione ci sarebbe. I dati in Parlamento dicono che esiste un fronte parlamentare, politicamente significativo e variegato al suo interno, che si oppone nominalmente a Renzi. Ma si tratta, ecco il punto, di un'opposizione spesso di facciata o simbolica (Forza Italia), di un'opposizione soltanto potenziale e drasticamente limitata dalla necessità di governarci insieme (Ncd), di un'opposizione talmente radicale e oltranzista da sfociare nella contestazione non del governo, ma del sistema (Grillo), di un'opposizione ideologica e di nicchia che ha scelto di investire unicamente sul tema della paura derivante dall'immigrazione o dalla crisi economica (Lega - Fratelli d'Italia) (...).
Il pericolo qual è, se questo è lo scenario? Mancando un'opposizione in senso politico parlamentare, perché finta e di facciata o perché radicale e assoluta, tale da non configurare, in ogni caso, un'alternativa plausibile o auspicabile, i cittadini o si alienano definitivamente dalla politica (divenendo, per così dire, oppositori esistenziali dello Stato e delle sue istituzioni) o danno vita a proprie forme di opposizione e dissenso, che per il fatto di essere frammentate e disperse, monotematiche e parziali, non possono che contribuire ancora di più alla frammentazione del tessuto sociale e istituzionale, oltre a risultare anch'esse improduttive a livello generale. Non avere opposizioni cui rendere conto o con le quali fare i conti è il sogno segreto di tutti i capi politici, ma è l'incubo reale di ogni democrazia decidente che aspiri ad una minima normalità.


Redazione

Fonte: Il Messaggero di martedì 14 ottobre 2014; autore: Alessandro Campi

mercoledì 15 ottobre 2014

I costi indiretti del jobs act


di Gianfranco Fini

Il travagliato passaggio al Senato del disegno di legge delega al Governo sulla riforma del mercato del lavoro ha sancito i pregi del “governo del fare”, ma anche i costi indiretti in termini istituzionali. La delega ottenuta dal governo sul tema lavoro è ampia, copre molte materie ma presenta un ampio margine di intervento attraverso i decreti attuativi. Già la trasposizione in quella sede della questione dell’art.18, improvvisamente trasformato da totem ideologico a requisito tecnico da disciplinare in sede regolamentare, richiede una particolare vigilanza a che tali decreti non eccedano i limiti della delega. La delega è sì figlia delle inevitabili mediazioni tra le forze in campo, ma anche di uno stile di governo che non ha ancora chiara la distinzione tra fretta e urgenza, e sotto l’alibi dell’urgenza, agisce in fretta ritenendo ingenuamente che l’efficienza si misuri sulla rapidità. Eppure Renzi dovrebbe aver imparato, ormai, che il premier non è un sindaco e il Parlamento non è una riunione di giunta. Ci sono regole che non possono essere “rottamate” semplicemente perché in vigore prima del suo arrivo.
Il senso “istituzionale” del proprio mandato, il rispetto e il valore delle istituzioni, compresa la gestione del dissenso interno, non sono un intralcio. Pertanto, non si può concordare sull’iter che ha condotto a votare - oltretutto con la fiducia - la delega su un tema collettivo come il lavoro, sottraendolo al dibattito del Parlamento. Un’operazione che ha trasmesso implicitamente il messaggio che il dibattito è un “rallentamento” e che il funzionamento del principale organo di rappresentanza degli italiani comporta una perdita di tempo. Nel merito del jobs act, nessuno nega l’urgenza di affrontare la questione lavoro, ma con queste modalità il confronto con il Parlamento ha poco valore, sia in fase di scrittura della riforma, sia in fase di ratifica. Se il dibattito viene sostituito sistematicamente dalla questione di fiducia allora tanto vale “istituzionalizzare” le riunioni di partito e gli accordi variamente sanciti in sede extra parlamentare.
Ma siamo proprio sicuri che siano queste le nuove riforme istituzionali di cui abbiamo bisogno? O magari serve una disciplina e una cultura delle regole diversa? Liberadestra ha sempre sostenuto una riforma dello Stato in chiave presidenziale, ma non abbiamo certo in mente il modello del decisionismo renziano. Un parlamento forte è il requisito principale per l’efficienza di un esecutivo forte e resta comunque la principale garanzia di rappresentatività del Paese. Adesso invece, sotto la minaccia o la promessa di un'altra fiducia alla Camera, si attende l’approvazione definitiva della delega. E entro sei mesi il Governo dovrà redigire i decreti attuativi. Qualche ultra renziano sottolineerà come sia “rapido ed efficiente” il nostro governo; senza pensare che in democrazia spesso la forma è anche sostanza. E da questo punto di vista c’è ben poco di cui rallegrarsi.

Nozze gay, l'inutile circolare di Alfano in campo

di Goffredo Milite Un risultato, la circolare del ministro Alfano che invita i sindaci a non trascrivere le nozze gay contratte all'estero, l'ha sicuramente ottenuto: quello di permettere al sindaco di Bologna, Virginio Merola, di parafrasare Garibaldi consegnando alla storia il suo altisonante "Io non obbedisco". Ma va' là! Epperò la pronuncia del prode Merola è risuonata come uno squillo di tromba per altri primi cittadini d'Italia, che si sono immediatamente mobilitati contro il responsabile del ministero dell'Interno ricoprendolo di contumelie. E' scesa in campo anche l'Anci, che con Piero Fassino ha lanciato un vero e proprio ukase al governo: "Non si possono affidare a ordinanze prefettizie competenze che la legge riconosce in capo agli enti locali". In un giorno è andata in fibrillazione anche la maggioranza con lo scontro paraideologico tra Ncd, da un parte, e Pd, dall'altra. Tutti sono corsi dietro ai rispettivi stendardi e hanno scatenato la solita tempesta in un bicchier d'acqua. Alla fine, lo stesso Alfano ha esposto a tutti le ferite ricevute in "battaglia" : "Mi sono visto tirare addosso una quantità di insulti e di aggettivi di una violenza inaudita". Ma chi gliel'ha fatto fare? Perché andare a cercarsi lo scontro su un nervo scoperto e su una materia quanto mai infiammabile? In realtà, il tema delle unioni omosessuali in sé non sarebbe poi così politicamente scabroso come è in Italia. Altrove viene affrontato con maggiore serenità e secondo le sensibilità e la cultura di ciascun Paese. Solo in Italia è il pretesto per mimare, sia da un parte sia dall'altra, una sorta di "guerra di religione". Se Alfano voleva fare una cosa saggia, avrebbe dovuto, proprio in qualità di ministro dell'Interno, sollecitare le forze politiche a regolare finalmente la delicata materia, all'insegna del buon senso e del rispetto dei diritti delle persone. Invece ha preferito la strada dello scontro. Come mai? A pensar male, come diceva Andreotti, si fa peccato ma ci si azzecca quasi sempre. E' probabile che nella scelta di dare battaglia ai laicisti arrabbiati abbia influito il fatto di essere leader dell'Ncd, partito in difficoltà politica e in calo di consensi (stando almeno ai sondaggi). Che c'è di meglio in questi casi , per ottenere un po' di visibilità, che eccitare le contrapposte tifoserie e indossare la tuta da combattimento? E probabilmente che , in tale scelta, abbia influito anche la plateale discesa in campo di Francesca Pascale, compagna di Berlusconi, in favore delle nozze gay, una iniziativa che avrà certamente suscitato un po' di sconcerto in una parte dell'elettorato di FI. Perché non approfittare della situazione di difficoltà del partito concorrente? Alla fine tutto rimarrà come prima. Ma la politica italiana poteva risparmiarsi questa ennesima giornata di ordinaria isteria.

Renzi ha conquistato lo "scalpo" dell'articolo 18, ma l'Italia rimane nel tunnel

di Aldo Di Lello Matteo Renzi è finalmente riuscito a portare in Europa lo "scalpo" dell'articolo 18, ma la sua strada personale si fa in salita e, ciò che più realmente conta, quella dell'Italia rimane impervia. Proprio nel giorno della vittoria del governo in Senato sul Jobs Act e proprio quando, al vertice straordinario Ue di Milano sul lavoro, il premier riceveva i complimenti della Merkel e degli altri leader europei, proprio in quelle ore, arrivava la doccia fredda del Fmi: "L'Italia, con le condizioni attuali, non è un Paese per cui si possa assicurare un futuro radioso, o quantomeno sereno". Presentando il Country report sul nostro Paese, il direttore esecutivo Andrea Montanino ha rilevato: "La crescita potenziale dell'Italia di fatto crolla per gli anni futuri, siamo inchiodati allo 0,5%". Per l'Fmi, ''le banche italiane hanno fatto progressi ma si trovano ad affrontare sfide e venti contrari ciclici'' . Mai come in questo momento il Paese avrebbe bisogno di coesione vera e di un robusto recupero di responsabilità e consapevolezza. Ma l'Italia rimane smarrita e frammentata, attraversata da rancori e particolarismi. Il fatto più preoccupante è che i messaggi provenienti dalla politica acuiscono, invece di sanare, le divisioni. Gli ideologismi escono periodicamente dalla naftalina per eccitare gli animi allo scontro. La rissa scatenata dai grillini in Senato durante il dibattito sulla fiducia fa il paio con la minaccia primonovecentesca venuta Landini di occupare le fabbriche. E tutto questo dopo aver assistito a una sorta di resa dei conti politico ideologica durante l'ultima riunione della Direzione del Pd. Anche Renzi contribuisce all'isteria generale. Anzi, diciamo che, in questo momento, il vestito del "castigamatti" lo indossa volentieri, al fine di accreditarsi come leader "forte" presso l'opinione pubblica italiana e gli altri leader europei. Ma a Renzi probabilmente sfugge il fatto che conquistare i titoli dei giornali e occupare in permanenza la scena dei media è un esercizio inutile, se poi non si conquista il consenso vero della società. Come ha notato Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera, costruire un "consenso nella società e suscitarne le energie è compito più complesso che mediare con i giovani turchi e rintuzzare la vecchia guardia". Dimostrazione chiara di questo limite renziano sono le voci critiche che stanno arrivando in modo sempre più frequente dalla società e dalla pubblica opinione. L'apertura di credito di importanti settori, economici e non, si sta progressivamente esaurendo. La partenza sprint e gli annunci mirabolanti dei primi mesi di governo potrebbe rivelarsi presto un boomerang. Intorno al premier cresce la diffidenza, se non l'aperto dissenso. Nelle ultime settimane sono arrivati due importanti segnali che Renzi farebbe male a trascurare. Uno è venuto dai vescovi ed è stato di inusitata durezza, rispetto allo stile normalmente felpato dei "prudenti pastori". "Basta slogan", ha detto senza mezzi termini il segretario della Cei, Nunzio Galantino. "La Chiesa pensa che bisogna guardare con più realismo alle persone che non hanno lavoro e che cercano lavoro". Il peso di tale critica non dipende solo dall'autorevolezza del soggetto da cui proviene, ma anche da quello che essa rivela in termini sociali. Perché i sensori delle diocesi sono sempre molto avvertiti rispetto al disagio che monta nella società. E, se le gerarchie episcopali utilizzano un linguaggio forte, vuol dire che il grado di esasperazione di molte famiglie italiane sta crescendo in modo preoccupante. L'altro rilevante segnale è venuto dalla pubblica opinione. Non è frequente che il Corriere della Sera, normalmente moderato nei toni e tendenzialmente filogovernativo, si scagli con tanta veemenza contro un premier come accaduto qualche settimana fa con il durissimo editoriale del direttore Ferruccio de Bortoli. Poi i dietrologi si sono scatenati, ma rimane il fatto che nell'azionariato del quotidiano di via Solferino sono rappresentati i maggiori gruppi economici e bancari italiani. Qualcosa vorrà pur dire, anche perché il "Corriere" continua a pubblicare editoriali di critica all'operato del premier. E anche la Repubblica comincia a non essere più tanto tenera con Renzi. Sintomatica è la posizione fortemente critica assunta dal fondatore Eugenio Scalfari. Più in generale, diciamo che il consenso del mondo imprenditoriale, almeno ai massimi livelli, comincia a scemare. Prova ne sia anche il basso profilo, se non addirittura il silenzio, venuto da Confindustria nella vicenda dell'articolo 18. Gli industriali si aspettano da Renzi molte altre cose, in termini di riduzione del carico fiscale sulle imprese, di incentivi alla produttività, di riduzione dei costi energetici, di semplificazioni amministrative. Se questo è lo stato odierno del rapporto tra politica e società, se Renzi non riesce a costruire una vera coesione intorno al suo progetto, se l'Italia, a dispetto di tanti sbandierati nuovismi, rimane prigioniera degli stessi vizi, se accade tutto questo, allora non ci si deve stupire se intorno al nostro Paese c'è ancora tanto scetticismo. E le stime pessimistiche del Fmi, più che fotografare i vizi del sistema economico, sono lo specchio di una patologia politica e culturale ben più profonda e strutturale.

Abbattere il debito per innescare la ripresa

di Angelo Romano Con le lenti del buon padre di famiglia la situazione economica italiana rappresenta la negazione assoluta di un comportamento diligente. La "famiglia Italia" è stata gestita, per decenni, senza alcun senso di responsabilità. Si è ipertrofizzata le cosiddetta democrazia, moltiplicando a dismisura le istituzioni ed i centri di costo, spesso fuori controllo. Sono stati concessi privilegi castali, senza che ciò apportasse alcun beneficio alla comunità nazionale. Si è costruito uno stato sociale, non equo, costoso, irrazionale e senza qualità: basti pensare alla sanità affidata a regioni spendaccione che la hanno utilizzata a fini di consenso e "gestionali" più che avendo a cuore la salute dei cittadini. Si è gonfiato a dismisura l'esercito dei dipendenti pubblici. Si è sprecato oltre ogni limite negli appalti e nella realizzazione di opere pubbliche, spesso rimaste incompiute. Si sono dilapidate risorse con interventi a pioggia senza una retrostante strategia. Si è ceduto di fronte ai ricatti della piazza, dietro ai quali a volte si celava il malaffare, con tacitanti "elargizioni benefiche" come quelle ultradecennali agli ex-detenuti di Napoli e Palermo. Che sia da ricercare lì una qualche collusione tra Stato e malaffare? Non si è fatta politica industriale, non è stata elaborata una strategia per la ricerca, non si sono difese le eccellenze italiane a partire dai beni culturali, non si è creata una scuola degna di questo nome, non si è valorizzato il genio italiano. Si è vissuti "a credito" espandendo il debito pubblico e confidando nello stellone. Poi, per cercare inutilmente di allontanarsi dall'abisso, è arrivata la recrudescenza della tassazione, una recrudescenza spinta al punto da fiaccare lo spirito di iniziativa, da congelare la voglia di fare, da spingere le imprese alla delocalizzazione o alla chiusura ed i migliori cervelli a migrare. Spesso ha spinto anche gli imprenditori al suicidio. Poi è arrivata la corsa al salvifico Euro che, a causa dell'enorme debito pubblico, ha dimezzato il potere d'acquisto degli italiani costretti ad accettare un concambio svantaggioso stante il debito pubblico. La stabilità e la forza della nuova moneta il vantaggio, peccato che per eccesso di forza sono rallentate pure le esportazioni. Se almeno, in parallelo, si fossero fatti dei passi avanti verso l'Europa dei cittadini e non dei banchieri la frustrazione sarebbe meno acuta. L'addio alla Lira, tuttavia, non ha portato con sé grandi strascichi. La memoria popolare, si sa, è labile. Difatti il valore dell'equivalenza in lire sugli scontrini da noi è durata qualche settimana, in Spagna ancora è in uso, Che sia accaduto perché non era opportuno che gli italiani capissero? Sta di fatto che, anche con l'Euro, si è continuato a spendere e ad espandere il debito senza mai porsi il problema del rientro. La sveglia ad un certo punto l'ha data l'Europa: senza conti in ordine non solo non si cresce ma si mette a rischio l'intero sistema europeo e dell'Euro. E sono arrivate, sotto gli occhi vigili del Cerbero teutonico, misure quali i patti di stabilità, i fiscal compact, le troike, i monitoraggi, i limiti agli aiuti di Stato, che oggi vengono definite, per lo più dai denigratori, "politiche di austerità". Tali politiche, non di austerità ma di buon senso, ancorché accettate e sottoscritte da tutti i Paesi membri dell'Unione, per effetto di una crisi economica globale senza precedenti, hanno cominciato ad essere criticate da più parti, finanche derogate come ha annunciato di voler fare la Francia, che pure ha un debito galoppante e come già fece la Germania. Eppure, la virtuosa Irlanda, dopo averle scrupolosamente applicate ha ripreso a crescere al tasso del 7% annuo. Il governo Renzi che culturalmente si colloca nel "partito della spesa" ha cominciato a mordere il freno, persino l'austero Padoan ha mostrato qualche segno di insofferenza verso il fiscal compact. Qualcun altro, non si sa bene ispirato da chi, sta promuovendo un referendum per abolire le norme più stringenti che l'Italia si è data in un guizzo di resipiscenza arrivato nel momento sbagliato, quando si pensava, non senza supponenza, che il "Salva Italia" avrebbe davvero sortito qualche salvifico effetto. Che fare? Rompere con l'Europa e le sue regole, rischiando pesanti sanzioni, o trovare una soluzione alternativa? Forse si potrebbe cominciare aggredendo l'immane debito pubblico. Questa sì una riforma utile e vantaggiosa. Piuttosto che fare spezzatino dei gioielli di famiglia, "privatizzandoli" all'italiana e senza sostanziali benefici, non sarebbe ora di costituire un "Fondo Italia" in cui mettere tutti i beni pubblici, mobili e immobili (si stima un valore di 600/700 miliardi). A tale fondo andrebbe garantita una gestione trasparente e professionale, poi le quote si potrebbero offrire, in concambio, ai detentori di debito pubblico, i quali ci guadagnerebbero nell'ottenere in cambio di un semplice pagherò dello Stato, quote con sottostanti beni reali, passibili di incremento di valore nel tempo e con probabili dividendi superiori ai tassi sui titoli. In tal modo si potrebbe ridurre di un terzo il debito e di più di un terzo gli interessi sul debito per effetto del minor rischio sulla massa complessiva. In altri termini: una trentina di miliardi cash per avviare la ripresa senza tradire gli impegni assunti con l'Europa. Angelo Romano

I diritti dei lavoratori, Renzi, il dito e la luna.

Mesi fa, nel primo quaderno di Liberadestra “Verso il lavoro…con un piano” scrivemmo che il problema italiano non è creare occupazione e basta, ma creare, attraverso il lavoro, condizioni di sostenibilità economica per lavoratori e famiglie – E’ infatti questa la condizione necessaria per stimolare la domanda interna, far ripartite i consumi e dare contenuti al concetto di “crescita”. Esempi di occupazione aumentata numericamente ma poi crollata con la crisi senza produrre alcun valore aggiunto al PIL e alla crescita del paese ne abbiamo sin dal ’97 – primi albori della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Se la riforma del mercato del lavoro deve essere “strutturale”, come viene annunciato da Renzi e ,come ci viene richiesto dall’UE, il governo deve quindi avere “memoria lunga” per non ripetere ,errori già commessi da altri, ma anche “ sguardo lungo” perché deve ragionare in prospettiva. Perciò non deve mirare solo ad aumentare i posti di lavoro; se l’obiettivo è la rincorsa all’indicatore numerico, allora basta “cinesizzare” il mercato del lavoro italiano, innalzando sempre più il tasso di precarietà e trasformando il posto di lavoro in una porta girevole per più persone, o puntare su occupazioni saltuarie e poco remunerative come nel caso dei working poor tedeschi. Se al contrario , l’obiettivo è quello di dare una spinta alla crescita reale del paese, ci deve essere qualcosa in più, qualcosa che vada oltre la rincorsa all’aumento formale del numero degli occupati. C’è bisogno che si espliciti un piano, ossia una strategia di crescita che sappia coniugare politiche del lavoro, politiche sociali, politiche di sviluppo all’interno di un recuperato ruolo di indirizzo dello Stato. Perché se è vero, come afferma sempre il Premier, che le riforme vanno fatte “ tutte insieme” a maggior ragione è vero che occorre inserire la riforma del mercato del lavoro in una più ampia strategia di crescita economica. Oggi al contrario il dibattito è tutto sul piano formale, si ferma alla superficie del problema: come ridurre la tipologia dei contratti, come riformare le regole d’ingaggio, come riequilibrare il “peso” dei diritti del lavoratore con gli oneri delle imprese. Tutti ambiti su cui si possono individuare sia aspetti positivi che elementi controversi ma si tratta di una discussione che prescinde completamente da qualsiasi riflessione circa il” dove “ e il “come” collocare le modifiche.
Dal governo non è venuto nessun approfondimento su piani d’investimento, nuove linee di politica industriale, dimensionamento delle imprese, prospettive di internazionalizzazione, capacità competitiva e di produzione di valore aggiunto delle PMI.
Dal governo non è venuto nessun approfondimento su piani d’investimento, nuove linee di politica industriale, dimensionamento delle imprese, prospettive di internazionalizzazione, capacità competitiva e di produzione di valore aggiunto delle PMI. La totale assenza di raccordo tra mercato del lavoro e sviluppo economico è sconcertante. Renzi sembra non comprendere che non basta intervenire sulle modalità di accesso al lavoro per creare occupazione. E’ miope concentrarsi solo sulla forma contrattuale che regola il primo impiego e non affrontare il nodo, assai più stretto, di come creare una filiera produttiva vincente, innovativa, e di qualità, capace di produrre più ricchezza e quindi nella necessità di assumere. In questo deserto di prospettive, il Job Act gratta il fondo del barile coltivando l’illusione di creare più posti di lavoro senza comprendere che le imprese cercano soprattutto, anche (ma non solo) per l’enorme pressione fiscale, di sopravvivere. Il governo accusa i suoi critici di sinistra di essere “ideologici” ma è anch’esso prigioniero della convinzione ideologica , propria di una certa cultura ultra liberista, secondo cui in Italia è difficile creare occupazione stabile per la rigidità del mercato del lavoro. Per fare un solo esempio: come non riflettere sul fatto che la propensione degli investitori esteri a guardare all’Italia non è certo legata alla sorte dell’art. 18 bensì alla affidabilità e alla capacità di innovazione di tutto il sistema Italia? Non è quindi solo chi, 44 anni dopo, difende i totem sopravvissuti dello Statuto dei Lavoratori ad essere fuori dalla realtà ma anche chi, come sembra dal dibattito in corso, continua a guardare il dito e non la luna.   Gianfranco Fini

Fini, revoca della scorta? Non sta a me commentare.

'Personalmente non sta a me esprimere commenti sulla decisione di revocarmi la scorta. Ringrazio gli amici come Giuseppe Consolo che hanno posto un problema di opportunità, peraltro sollevato anche da alcune interrogazioni parlamentari'. E' quanto ha dichiarato ad Adnkronos l'ex presidente della Camera, Gianfranco Fini. Giuseppe Consolo, legale di Fini ed ex parlamentare di Futuro e Libertà per l'Italia ha segnalato la decisione relativa alla revoca della scorta proprio nel giorno in cui venivano pubblicate nuove intercettazioni che contenevano minacce di Totò Riina contro di lui. Secondo Consolo "si tratta di una 'singolare coincidenza' alla quale lo Stato dovrebbe porre subito rimedio ripristinando, anche alla luce delle dichiarazioni di Riina, il dispositivo di protezione all'ex capo di An" 'Miserabile e meschino', così viene definito Fini dal Boss di Cosa Nostra nelle intercettazioni carpite durante l'ora d'aria passata in conversazione con Alberto Lo Russo nel carcere milanese di Opera: ben 1350 pagine di confessioni e sfoghi raccolti nel corso delle indagini sulla trattativa Stato-Mafia.

Il "vento scozzese" s'è ritirato: gli Stati nazionali sono più vivi che mai

di Aldo Di Lello
Alla fine si è rivelato tutto un colorato psicodramma mediatico, che ha tenuto per qualche giorno in apprensione l'opinione pubblica britannica e quella del resto d'Europa. Il Regno Unito resterà integro. Continuerà il suo cammino, cominciato con l'Atto d'Unione del 1707. Lo ha deciso il popolo scozzese, decretando con una maggioranza del 55 % la permanenza nello Stato unitario della Gran Bretagna. Più di tre secoli di storia non si cancellano, dall'oggi al domani, con un colpo di matita. Anche i vincitori, innanzi tutto i leader politici nazionali (da Cameron a Miliband), promettono che comunque il Regno Unito cambierà assetto, con una più ampia devolution in materia fiscale e di welfare concessa alla Scozia, al Galles e all'Irlanda del Nord. Ma il messaggio delle urne scozzesi è chiaro: lo Stato nazionale non è un ferrovecchio. Non solo esso corrisponde al sentire profondo delle genti riunite nel cammino storico delle nazioni, ma rimane un fattore primario di democrazia e di crescita economica e civile. Gli scozzesi hanno votato sia con il cuore sia con la mente, respingendo l'idea semplicistica e miope di realizzare una loro enclave di benessere attraverso l'aumento statistico del reddito pro-capite e il controllo esclusivo del petrolio del Mare del Nord. E' apparso chiaro alla maggioranza degli elettori referendari che dividersi vuol dire indebolirsi e, alla lunga, impoverirsi. E' un concetto ben sintetizzato nel commento a caldo di Cameron : "Insieme siamo migliori". Il no alla secessione della Scozia è destinato ad avere ripercussioni anche nel resto d'Europa, nel senso che smorzerà gli entusiasmi dei separatisti di tutto il Continente, quegli stessi che speravano di cavalcare trionfanti l'annunciata rottura del Regno Unito. La prima verifica ci sarà il 9 novembre in Catalogna, data fissata per il referendum per l'indipendenza, che però è stato bloccato con un voto a larga maggioranza del Parlamento spagnolo, decretando l'illegittimità della consultazione. La piazza catalana spinge affinché il referendum si tenga egualmente. Una imponente manifestazione si è tenuta l'11 settembre a Barcellona. Ma è plausibile pensare che ciò sia dipeso dal fatto che ancora infuriava impetuosamente il "vento scozzese". Ora questo vento s'è placato e le forze che spingono per una prova di forza con Madrid non possono più contare sull'effetto contagio. La crisi sociale che investe la Spagna può sempre offrire nuova linfa alle spinte separatiste. Ma quello che vale per la (relativamente) prospera Gran Bretagna (crescita al 3,2 % del Pil, disoccupazione al 6,5%) vale a maggior ragione per una Spagna che tenta faticosamente di uscire dal tunnel della crisi (il Paese iberico è in crescita dello 0,6 %, ma il tasso di disoccupazione è sul pauroso livello del 24,4 %): a Barcellona, ancor più che a Edimburgo, la disunione riduce le possibilità di sviluppo. E qualche effetto "calmante" l'esito del referendum in Scozia dovrebbe averlo anche sui separatisti di casa nostra. La Lega, è vero, ha messo momentaneamente da parte gli slogan della secessione per concentrare i suoi strali solo contro l'Europa e i migranti. Ma Salvini e lo stato maggiore del Carroccio sono volati in pompa magna a Edimburgo con l'idea di partecipare alla sperata festa dell'indipendenza scozzese. E vale la pena anche ricordare che qualche mese fa si è tenuto un grottesco referendum ai gazebo e on line per l'"autodeterminazione" del Veneto. Anche l'Italia del Nord verrà risparmiata dal "vento scozzese". "Braveheart" rimane solo un bel film.

Domani Fini a Coffee Break su la 7

Domani, mercoledì 17 settembre, Gianfranco Fini sarà ospite a Coffee Break, alle 9:45 su La 7.

Sabato 20 settembre Fini a LiberalCamp

Il prossimo 20 settembre, a Torino, a partire dalle ore 11.00, il Presidente Gianfranco Fini parteciperà alla tavola rotonda "Verso uno Stato autenticamente minimo" nell'ambito di LiberalCamp, una due-giorni di dibattiti organizzata dall'Associazione MIT - Modernizzare l'Italia. Fra i relatori ci sarà il Sottosegretario agli Affari esteri, Benedetto Della Vedova, e il Viceministro alla Giustizia, Enrico Costa.