mercoledì 15 ottobre 2014

Democrazia e ricchezza divorziano? In Cina non si sono mai sposate

I giornali trasudano in questi giorni indignazione e sorpresa per le condizioni di lavoro nella Chinatown di Prato. Il rogo nel laboratorio-lager ha portato ad accendere i riflettori dei media. E la realtà sotto il cono di luce è inquietante. Si può morire, nel distretto tessile, dopo aver lavorato 18 ore al giorno per sette giorni a settimana e per poco più di un euro all’ora. Si può morire dopo aver passato, per anni, giorno e notte in una stanza di 2 metri per 2 priva di finestre. Ma non siamo in Italia? È la globalizzazione bellezza! O, per meglio dire, ne è il suo volto oscuro, quello che non era in programma e nemmeno nelle attese o nelle promesse quando, il 1° gennaio del 1995, nacque l’Organizzazione mondiale del commercio e quando, dopo il Doha Round del 2001, vi fece ingresso la Cina. Già 18 anni fa, mentre le élites dell’emisfero boreale entravano in stato di euforia per la liberalizzazione dei commerci e della circolazione dei capitali, ci fu chi – non un nostalgico dell’autarchia, ma un liberale come Ralf Dahrendorf – metteva in guardia dal rischio che si stava profilando all’orizzonte. In un aureo libretto dal titolo “Quadrare il cerchio” (poi integrato, poco prima della scomparsa, nella nuova edizione del 2009) sir Dahrendorf avvertiva che si stava affermando in Oriente un nuovo tipo di capitalismo, un sistema piuttosto diverso da quello euro-americano. Se quello occidentale era infatti un capitalismo fondato sul binomio stretto tra produzione di ricchezza e allargamento dei diritti e della democrazia, quello orientale aveva invece come base politica sistemi poco rispettosi sia dei diritti democratici sia di quelli sindacali. Il pensatore anglo-tedesco aveva di mira le “Tigri” emergenti, come venivano definiti i Paesi asiatici di nuova industralizzazione tra gli anni Ottanta e Novanta del Novecento. Ma non aveva ancora contezza della paurosa potenza economica che si sarebbe dopo qualche anno sprigionata dalla Cina. Il rischio che il binomio tra ricchezza e democrazia (uno dei punti saldi della guerra fredda) si indebolisse si è manifestato proprio in questi anni, con i bassi livelli di crescita economica dei Paesi occidentali (e con la connessa crisi politica) e, all’opposto, con i giganteschi passi avanti della Cina (cui però non corrisponde un processo di democratizzazione). Il capitalismo vincente oggi sui mercati (almeno per ciò che riguarda l’industria manifatturiera) è un capitalismo fondato sulla compressione massima del costo del lavoro e sulla violazione delle norme di sicurezza e salubrità dei luoghi di produzione: il capitalismo cinese, appunto. È il capitalismo dei numeri, che indebolisce il capitalismo della qualità e delle libertà. L’opinione pubblica deve naturalmente pretendere che, almeno sul territorio italiano, siano rispettate le norme di sicurezza e siano tutelati i diritti delle persone. Ma, senza per questo cadere nella rassegnazione, dobbiamo tutti essere consapevoli che la partita (ammesso che in Italia ci sia l’effettiva volontà politica di combatterla) è molto complessa. Ci sarà pure un motivo se il Pm che indaga sul rogo di Prato ha allargato le braccia e ha affermato: “I controlli, nonostante l’impegno delle forze dell’ordine e della amministrazioni, sono insufficienti. E’ il Far West”. Ma non quello, purtroppo, della mitica frontiera americana.
Di Aldo Di Lello

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